Gentile direttore,

le scrivo dopo aver letto il 15 giugno un vostro articolo che riprendeva un’intervista rilasciata da Carlo Petrini al quotidiano La Stampa. L’articolo riportava alcune affermazioni non nuove del fondatore dell’associazione Slow Food, in cui si esaltava l’agricoltura biologica e biodinamica e si condannava l’agricoltura da lui definita “classica”: la prima rispetterebbe la Terra e sarebbe portatrice di un cibo sano, mentre la seconda farebbe parte di un sistema alimentare che inquina, spreca e ammala.



Questa querelle che da molti anni divide i protagonisti del settore agroalimentare e che poi viene riportata sulle pagine della stampa generalista, credo che non sia di nessuna utilità per “l’utilizzatore finale” dei prodotti alimentari, cioè di fatto per tutti noi.

Come ogni settore della vita umana anche quello dell’agroalimentare ha delle sue regole ben precise che richiedono una conoscenza profonda dei processi della produzione e della trasformazione della materia prima, perciò una eccessiva semplificazione, non sempre in buona fede, produce inizialmente confusione e poi paure ingiustificate.



A proposito di confusione, sono proprio di qualche giorno fa le conclusioni del primo rapporto sulla sicurezza di uno degli erbicidi più discussi e più diffusi in campo agricolo, il glifosate (si chiama proprio così, non glifosato): non è cancerogeno, non è mutageno, né tossico per la riproduzione.

Con questa lettera non vorrei aggiungere altri argomenti o considerazioni che siano pro o contro l’agricoltura biologica o quella convenzionale (entrambe hanno diritto di cittadinanza), ma, se non vogliamo sostituire la realtà con le nostre idee, l’unica soluzione è quella di rimettere l’uomo al centro delle sue responsabilità e vedere quindi la creazione come l’occasione per lo sviluppo di un autentico bene comune, attivando quelle energie positive che sono le sole e le stesse che possono cambiare il cuore dell’uomo e la storia del nostro pianeta.



Segnalo solo un esempio di una strada percorribile, quella del residuo zero, che ha l’obiettivo di ottenere un prodotto al consumo a “residuo chimico zero”, equivalente a quello biologico (presenza di residui di prodotti fitosanitari < a 0,01 ppm), ma con elevati livelli produttivi unitari tipici dell’agricoltura convenzionale. Strada che si sta già sperimentando in diverse colture e in particolare col progetto FRUDUR-0 presente nel Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 della Lombardia (Sostegno per la costituzione e la gestione dei Gruppi operativi del Partenariato europeo per l’innovazione) che vuole valorizzare la produzione del frumento duro attraverso il raggiungimento di un eccellente livello qualitativo e sanitario, assicurando elevate rese produttive ed economiche, mediante un uso efficiente delle risorse e un’ottimizzazione delle operazioni di filiera, rispettando i principali aspetti della sostenibilità agronomica, economica ed ambientale.

Solo questo realismo attento e non ideologico potrà portarci ad accettare i rapporti fondamentali dell’ordinamento della creazione, dando ogni volta delle risposte che potranno anche chiederci un cambiamento del nostro stile di vita, come ci è già stato testimoniato da secoli di esperienza benedettina e francescana, che ci racconta concretamente della parentela dell’uomo con l’intero creato.