Un recente articolo, apparso su un’importante rivista online di agricoltura, pone la questione su come oggi vengono diffuse le notizie riguardanti il settore agricolo. Una domanda molto pertinente, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui le informazioni raggiungono tante persone e in breve tempo.
È evidente che l’informazione trasmessa è in grado di orientare i nostri consumi e spesso si nota come essa restituisce alla popolazione un quadro distorto del settore primario, andando quindi ad intaccarne negativamente la conoscenza.
Lo conferma un’indagine sulla percezione del “rischio alimentare” condotta dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) della Regione Piemonte. Lo studio evidenzia come il consumatore metta al primo posto delle sue preoccupazioni (rischio percepito) i “contaminanti chimici” negli alimenti (pesticidi, metalli), mentre a livello scientifico questo pericolo (rischio reale) si trova al penultimo posto, collocando in prima posizione la malnutrizione e la nutrizione errata.
Normalmente la comunicazione del mondo agricolo segue due direzioni: una allarmistica/scandalistica e l’altra bucolica. Entrambe forniscono un’immagine deformata del lavoro dell’agricoltore e dei suoi prodotti.
Non bisogna certo tacere quando ci si imbatte in frodi alimentari accertate, ma un altro conto è assistere al dilagare di fake news che ingannano il consumatore e, anche spaventandolo, orientano in modo errato il suo comportamento alimentare. Alcuni esempi.
1. Da diversi anni assistiamo al ritorno sul mercato dei cosiddetti “grani antichi”, che non sono certamente quelli impiegati nel periodo romanico in cui si utilizzava prevalentemente il farro dicocco (Triticum dicoccum). L’argomento di cosa sia un grano antico o moderno è assai controverso, ma si ritiene che le varietà costituite prima del dopoguerra sarebbero antiche.
Rispettando le scelte di ciascuna persona, è però senz’altro fuorviante dare la patente di “migliori” a delle varietà antiche, la più rinomata delle quali è il grano duro Senatore Cappelli, immesso in commercio nel 1915, anch’esse frutto di un miglioramento genetico avvenuto nei primi anni del 900. Ma dopo tanti anni siamo sicuri che sia sempre la stessa varietà? Chi ha riprodotto per più di 50 anni, selezionando ogni anno tra le diverse mutazioni, il seme della vecchia varietà?
Molti sono gli studi e ancora bisognerà farne, ma, senza entrare nei particolari (non è questa la sede), le varietà dei “grani antichi” non sono la soluzione ai problemi di sensibilità al glutine e ad altri componenti (Ncgs: Non Celiac Gluten Sensitivity; Ncws: Non Celiac Wheat Sensitivity); di miglioramento della panificazione (il tipo di lievito impiegato incide molto); di aumento dei nutrienti nella nostra alimentazione; di maggior digeribilità dei prodotti finali.
In molti casi per migliorare l’assunzione di un prodotto derivante dal frumento è sufficiente passare da una farina 00 ad una meno raffinata, 1 o 2. L’esistenza di una nicchia produttiva di “grani antichi” non è negativa, soprattutto se c’è qualcuno che la paga, ma è impossibile rinunciare a quello che l’attuale miglioramento genetico ha prodotto sia in termini di rese produttive (+44% circa) che di qualità di pastificazione.
2. Sovente si sente dire che i concimi di sintesi, oltre ad attentare alla salute umana, avvelenano il terreno rendendolo sterile: affermazione che, se fosse vera, non spiegherebbe l’aumento delle produzioni agrarie a partire dal 1921, data dell’avvento dei concimi di sintesi, e oggi la Pianura Padana avrebbe l’aspetto di un deserto.
3. Soprattutto nelle trasmissioni televisive dedicate al mondo rurale, viene fatta passare l’informazione che i giovani si stanno avvicinando all’agricoltura e che tale attività riscuote un certo successo e risulta interessante e attrattiva. Guardando i dati dell’ultimo censimento generale dell’agricoltura (2010-2020), il ricambio generazionale in agricoltura resta solo uno slogan. L’indagine Istat mostra che nel 2020 i giovani agricoltori, registrati con meno di 44 anni (sic), sono il 13,4%, mentre nel 2010 erano il 17,6% del totale. Un calo del 24%.
4. Anche la lettura distorta, da parte di alcune Ong ambientaliste, dei risultati ottenuti dall’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) sulla presenza dei residui di fitofarmaci negli alimenti è un altro esempio di disinformazione che mira a inculcare nella popolazione la paura di essere avvelenati. Ogni anno l’Efsa analizza campioni di prodotti agricoli per rilevare la presenza o meno di oltre 600 fitofarmaci. L’ultima relazione del 2020 mostra che su 88.141 campioni raccolti nell’Ue il 94,9% rientra nei limiti di legge. In particolare, in Italia lo standard di sicurezza è superiore alla media europea con il 99% di campioni regolari. Con questi dati, sottolinea l’Efsa, “è improbabile che l’esposizione acuta e cronica a residui di fitofarmaci tramite l’alimentazione possa destare preoccupazioni per la salute dei consumatori”.
Si potrebbe continuare con altri esempi deformanti del sistema agricolo che non aiutano il consumatore a scegliere consapevolmente, lasciandolo disorientato di fronte ad un mercato sempre più globalizzato. Sarebbe invece più utile informare con maggior correttezza e ricordare più spesso che non c’è cibo, non c’è transizione ecologica e non c’è futuro senza agricoltura.
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