La strategia Farm to Fork (Dal produttore al consumatore) rappresenta la politica agroalimentare del Green Deal europeo, che vuole trasformare l’Ue in un’economia moderna, in cui – deadline 2050 – non siano più generate emissioni nette di gas serra. Obiettivo ambizioso, tanto che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, lo ha definito “come lo sbarco dell’uomo sulla luna”.
Cinque sono gli obiettivi di Farm to Fork da raggiungere entro il 2030, tra cui, oltre all’aumento della superficie coltivata con metodo biologico, è presente anche la riduzione dell’uso dei fitofarmaci del 50% rispetto alla media 2015-2017.
Innanzitutto è utile capire cosa sono questi prodotti fitosanitari di cui l’Europa chiede una diminuzione e quali sono le normative per il loro impiego: ricordiamo che per legge tutti gli alimenti di origine vegetale non devono contenere, al momento della loro immissione in circolazione, residui di agrofarmaci superiori ai limiti massimi (Lmr) fissati dall’ Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e che, se i residui di questi prodotti risultano inferiori ai limiti di legge, essi non rappresentano rischi per la salute dei consumatori. Va poi evidenziato che nell’arco di 20 anni si è passati da oltre 1.000 sostanze attive a circa 300, mentre il numero dei parassiti, patogeni e infestanti non si è ridotto.
Allora è possibile dimezzare l’impiego di questi prodotti senza avere perdite non solo quantitative, ma anche qualitative delle produzioni finali? Secondo il Dipartimento di Economia dell’Università olandese di Wageningen, il taglio del 50% dell’impiego di prodotti fitosanitari, insieme alla riduzione del 20% di fertilizzanti – altro obiettivo di Farm to Fork – porterebbe a una riduzione delle rese fino al 50% (studio eseguito su 5 colture annuali e 5 perenni). Comunque, al di là di ogni modello previsionale, si andrebbe senz’altro incontro ad un aumento dei prezzi al consumo, perché l’impiego di eventuali soluzioni alternative ai fitofarmaci avrebbe un costo più elevato.
Quindi, realisticamente, la strada più appropriata non è quella della riduzione lineare dei prodotti fitosanitari, ma il loro impiego razionale all’interno di un’agricoltura integrata, come hanno evidenziato anche i risultati della sperimentazione biennale del progetto Frudur-0 (filiera del grano duro della Martesana a residuo zero), finanziato dal Psr di Regione Lombardia. In questo studio sono stati utilizzati metodi alternativi al “chimico” e metodi in cui l’uso dei fitofarmaci è stato complementare. Rammentiamo che la coltura del grano duro in molti areali è naturalmente soggetta ad alcune malattie fungine, che non solo ne riducono la produzione, ma addirittura la rendono inutilizzabile all’alimentazione, a causa della presenza nel prodotto finale di alcune micotossine, composti tossici potenzialmente cancerogeni. In sintesi, cosa ci dice questa sperimentazione per ciò che riguarda il controllo delle micotossine e delle rese produttive?
1) L’importanza di utilizzare varietà geneticamente resistenti alle malattie fungine: su questo punto è interessante capire cosa dirà la Ue sul futuro delle nuove tecnologie genetiche (Tea) sulle quali c’è molta aspettativa.
2) Utilizzare tutte le conoscenze agronomiche (studiate sui libri di agronomia, ma molte volte dimenticate) al fine di prevenire il più possibile l’insorgere delle malattie sulla coltura (rotazioni dei terreni, lavorazioni del suolo eccetera).
3) Intervenire tempestivamente con trattamenti fungicidi, quando necessario, utilizzando i più innovativi sistemi di supporto alle decisioni (Dss).
Queste sono le indicazioni generali da seguire per ottenere un prodotto finale sicuro e produttivo, cioè privilegiare un’integrazione tra genetica, agronomia e difesa fitosanitaria: indicazioni da sostenere soprattutto alla luce della difficile odierna situazione agroalimentare europea.
Infatti le drammatiche condizioni della guerra in Ucraina hanno accentuato quanto aveva già evidenziato l’emergenza Covid-19, cioè l’importanza ma anche la fragilità del settore primario dell’Ue, sempre più centrato su una sostenibilità ambientale a scapito di una sostenibilità produttiva che era alla base della Politica agricola comune (Pac) al suo sorgere.
In particolare, l’agricoltura italiana è un settore gravemente in crisi, con un aumento dei costi di circa il 70% per le aziende che producono cereali, ortaggi e fiori e del 57% negli allevamenti da bovini da latte (fonte Crea, 24 marzo 2022). Per far fronte a queste difficoltà contingenti – soltanto per i fertilizzanti, mangimi, gasolio, sementi/piantine, fitosanitari, noleggi passivi, l’impatto medio aziendale è di oltre 15.700 euro di aumento, che a livello medio nazionale porterebbe l’incremento dei costi al +54% (fonte Crea) – che si aggiungono a quelle strutturali del sistema italiano, un Gruppo di lavoro in cui è presente l’Associazione italiana società scientifiche agrarie, ha redatto un documento con diverse proposte da realizzarsi a breve e medio termine, tra cui alcune emerse proprio anche dalla sperimentazione Frudur-0.
Occorre poi augurarsi che l’attuale crisi porti a un ripensamento delle “linee guida” che sostengono la politica agricola europea (e italiana), spesso compiacente nei confronti di un’opinione pubblica formata su una narrazione bucolica staccata dalla realtà.
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