L’Italia e il primato che non ti aspetti. Spesso abituato a occupare le posizioni di coda nelle classifiche internazionali, il nostro Paese brilla in uno dei settori che si candidano a rappresentare un asset nevralgico nello sviluppo economico futuro: le coltivazioni green. E lo fa superando con ampi margini i risultati ottenuti da tutti gli altri principali Paesi europei. “La nostra agricoltura è tra le più sostenibili – conferma Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti -, essendo responsabile di appena il 7,2% di tutte le emissioni a livello nazionale.



E questo, in altri termini, significa che produce 30 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, contro i 76 milioni di tonnellate della Francia, i 66 milioni di tonnellate della Germania, i 41 milioni del Regno Unito e i 39 milioni della Spagna. E non solo. Il Bel Paese si conferma infatti ai vertici mondiali per aree agricole coltivate a biologico, pari al 15,5% della superficie agricola utilizzata nazionale. E non si deve dimenticare neppure la nostra zootecnia che rappresenta un modello di cui essere orgogliosi”.



Eccellenze che fanno la differenza

I numeri dunque parlano da soli, attestando riscontri di tutto rilievo per le coltivazioni green. Ma c’è di più. Va infatti sottolineato che questo risultato non costituisce il frutto di un percorso incidentale e contingente. Tutt’altro. Rappresenta piuttosto l’ideale coronamento di una strategia di crescita di cui si è reso protagonista negli anni l’intero sistema delle filiere. Anche in questo caso, la tesi è ampiamente confermata dai dati. “Con un fatturato pari a 540 miliardi di euro – osserva Massimiliano Giansanti, Presidente di Confagricoltura -, il sistema agroalimentare italiano, dall’agricoltura alla ristorazione, rappresenta il 25% del Pil nazionale, classificandosi primo in Europa per valore aggiunto agricolo”. Una voce che brilla, insomma, nel bilancio del Paese, tanto più che rappresenta il risultato di tanti, positivi contributi apportati dalle eccellenze del settore. La lista dei comparti in ottimo stato di salute è infatti piuttosto nutrita. “Tra i tanti – rileva Giansanti -, va senz’altro segnalato il mercato del vino, il cui giro d’affari supera ormai i 15 miliardi di euro”. Un traguardo importante, soprattutto se si considera che la crescita è riconducibile non tanto alla maggiore quantità prodotta – le superfici vitate infatti restano stabili – quanto a un incremento del valore del prodotto. Ovvero del prezzo di vendita.



Degna di nota è poi la performance dell’ortofrutta. “Uno studio recentemente realizzato da Confagricoltura con la Fondazione Edison – racconta Giansanti – ha evidenziato come l’Italia sia il primo produttore Ue di ben 17 referenze – tra cui i carciofi, per i quali il Bel Paese vanta una leadership mondiale – e si classifichi al secondo posto in altri 20 casi”. Un primato che si riflette naturalmente sui conti. “La produzione di ortaggi tricolore – rileva Giansanti – supera gli 8,5 miliardi di euro, con le conserve vegetali – pomodoro e legumi – a recitare la parte del leone grazie a un fatturato di poco inferiore ai 5 miliardi di euro. E a questi numeri si devono aggiungere anche i circa 3 miliardi di euro generati dalla produzione frutticola italiana”.

Infine, non vanno neppure dimenticate altre due voci essenziali per il comparto. “La prima – afferma Giansanti – è rappresentata dal lattiero caseario, che ha raggiunto un giro d’affari stimabile in 16,5 miliardi di euro. Un valore che rappresenta ben l’11,5% del giro d’affari complessivo dell’agroalimentare italiano e che pone il settore al vertice per importanza di fatturato nel comparto. La seconda rimanda invece al mercato del grano duro e della pasta, arrivato a valere 1,9 miliardi di euro. Un traguardo raggiunto (anche) grazie alla spinta assicurata dall’export, dal momento che spaghetti&maccheroni incidono da soli per il 5% sul valore delle complessive esportazioni agroalimentari”.

La ripartizione del valore

Alla prova dei fatti – o meglio del campo -, le filiere agroalimentari italiane si dimostrano, insomma, un vero e proprio fiore all’occhiello della nostra economia. Un asso nella manica che il Bel Paese può e deve giocare per costruire la propria futura crescita. Va detto però che la strada potrebbe non essere sempre in discesa: il percorso di valorizzazione dell’intero sistema non si presenta infatti privo di ostacoli.

Innanzitutto, ci sono da considerare i nodi critici intrinseci al comparto, primo fra tutti quello rappresentato dalla necessità di riconoscere agli agricoltori il giusto valore delle proprie produzioni. Un passaggio molto delicato, perché sottende un’accusa, netta e diretta, mossa a industria e distribuzione, imputate di fare leva sul proprio potere contrattuale, così da ridurre, a volte ai minimi termini, i margini per chi lavora nei campi. Su questo punto, però, qualche passo in avanti sembra essere stato compiuto. Due strumenti si candidano infatti a segnare un punto svolta. Il primo corrisponde ai Contratti di filiera e di distretto per i settori agroalimentari, della pesca e dell’acquacoltura, della silvicoltura, della floricoltura e del vivaismo. “Grazie a questa nuova normativa – afferma Prandini – potremo sostenere gli investimenti con accordi pluriennali tra fornitori agricoli e industrie. Bene ha fatto perciò il Governo a destinare a questa voce 1,2 miliardi di euro del Pnrr“. Uno stanziamento significativo, dunque, che consentirà di sostenere le imprese agricole fino al 2026. E che ha già messo in moto una macchina operativa destinata a impiegare velocemente le risorse.

“Coldiretti – precisa Prandini – ha elaborato una serie di iniziative immediatamente cantierabili con piani concreti che puntano su innovazione, integrazione, digitalizzazione e sostenibilità per tutelare il reddito di agricoltori e allevatori e consolidare i rapporti con l’industria che vuole investire sul vero Made in Italy. I progetti interessano in particolare le filiere del settore zootecnico (carni bovine e avicole), dell’olio di oliva, del vino, della birra artigianale con malto 100% italiano, dell’ortofrutta fresca e lavorata e del florovivaismo”.

Il secondo strumento che potrà giocare a favore di un riequilibrio nella distribuzione del valore lungo la filiera è rappresentato dalla Direttiva Ue contro le pratiche commerciali sleali. Approvato dal Consiglio dei ministri a fine luglio, il testo di legge intende combattere le speculazioni sul cibo dal campo alla tavola definendo i comportamenti vietati in quanto contrari ai principi di buona fede e correttezza e imposti unilateralmente da un contraente alla sua controparte. Per fare solo qualche esempio, si pensi ai ritardi nei pagamenti, agli annullamenti di ordini relativi a prodotti alimentari deperibili fatti in ‘zona Cesarini’, per arrivare alle modifiche unilaterali o retroattive ai contratti, fino al rifiuto di sottoscrivere accordi scritti. Ma la normativa va anche oltre, spingendosi a pronunciarsi sul divieto di corrispondere tariffe inferiori ai prezzi di produzione. E punta così a evitare che l’attuale massiccio ricorso alle offerte promozionali venga scaricato sulle imprese agricole, già costrette a subire l’aumento di costi dovuti alle difficili condizioni di mercato. “La Direttiva Ue – conclude Prandini – fa fare un salto di qualità nella tutela della parte debole, che è quasi sempre costituita proprio dalle aziende agricole”.

Gli altri dossier aperti

Il settore agroalimentare non dovrà tuttavia confrontarsi con le sole problematiche comprese nel pur ampio perimetro dei rapporti di filiera. “Sarà chiamato a rispondere anche a nuove sfide – spiega Giansanti -, in primis quella della sicurezza e dell’autosufficienza alimentare, di cui si è compresa appieno l’importanza nel periodo del lockdown, ma anche quella della crescita economica, dell’occupazione, delle emergenze sanitarie, della lotta ai cambiamenti climatici, della transizione energetica”.

Sul raggiungimento di questi obiettivi però molto inciderà il contesto in cui il comparto si troverà ad agire. “Andranno colmate le carenze infrastrutturali – nota Giansanti -: le imprese hanno bisogno di strutture logistiche, hub portuali e aeroportuali specializzati – anche per il controllo fitosanitario -, di alta velocità, centri intermodali per ridurre i costi del trasporto delle merci e il carico ambientale. Hanno insomma bisogno di superare il gap che le separa dagli altri Paesi europei. E alle infrastrutture logistiche si aggiungono anche quelle tecnologiche e digitali, per dare a tutti i territori la possibilità di competere. Una prospettiva, quest’ultima, in cui diventa fondamentale investire in ricerca e innovazione, così come anche in formazione”.

Il ruolo dell’Ue

In questo scenario, le aziende agroalimentari sono e saranno chiamate quindi a un banco di prova molto impegnativo, che richiederà sforzi non certo risibili anche sotto l’aspetto economico. Un punto, quest’ultimo, che rischia, come facilmente intuibile, di rappresentare il vero e proprio fattore dirimente nella risposta dei singoli player alle sfide in campo. Un punto nevralgico sul quale molto sono destinate a incidere le scelte operate sul fronte istituzionale. In primo luogo, a livello europeo. E Bruxelles, in effetti, sembra non essere stata sorda all’istanza. La nuova Pac (Politica agricola comunitaria), infatti, approvata a novembre dal Parlamento europeo, chiede ai Paesi membri di utilizzare almeno il 10% dei pagamenti diretti a sostegno delle piccole e medie aziende agricole e prevede che almeno il 3% del suo bilancio vada ai giovani agricoltori. Senza contare la creazione di una riserva di crisi con una dotazione annua di 450 milioni di euro (a prezzi correnti) per aiutare gli agricoltori in caso di instabilità dei prezzi o del mercato.

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