La politica agroalimentare del Green Deal europeo è riassunta nella strategia Farm to Fork (dal Produttore al consumatore), che è anche uno dei pilastri per raggiungere emissioni zero di CO2 nel 2050. Questa strategia vuole affrontare la scommessa del conseguimento di sistemi alimentari sostenibili attraverso cinque obiettivi da realizzare entro il 2030:



• ridurre l’uso e il rischio dei fitofarmaci del 50% rispetto alla media 2015-2017;

• ridurre l’impiego di fertilizzanti del 20% rispetto a oggi;

• aumentare la superficie coltivata con metodo biologico dall’odierno 8% al 25% del totale;

• riservare il 10% della Superficie Agraria Utile (SAU) a livello europeo per elementi di biodiversità e paesaggio;



• migliorare il benessere degli animali.

Sono obiettivi molto ambiziosi, ma ormai più di uno studio (rapporti: JRC della Commissione europea, USDA del Dipartimento dell’agricoltura statunitense, ricercatori olandesi della Wageningen University & Research) ci dice che le conseguenze di questa strategia possono essere molto differenti da quelle sperate, ricordandoci che “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.

In sostanza, tutti questi rapporti, con scenari differenti valutando i possibili sostegni della nuova Politica agricola comunitaria (Pac), sono unanimi nel prevedere una riduzione della produzione agricola tra il 5% e il 15% rispetto ai livelli attuali, con una contrazione delle esportazioni e quindi un peggioramento del deficit commerciale europeo (già importiamo un quinto dei prodotti vegetali), nonché un aumento dei prezzi al consumo di circa il 10%, dovuto alle maggiori importazioni da paesi terzi.



Oltre al calo dei quantitativi, rischiamo anche di perdere la ricchezza delle biodiversità produttive tipiche dell’area mediterranea, senza poi ottenere gli attesi benefici per l’ambiente; infatti la riduzione dei gas serra, prevista dalla contrazione delle produzioni europee, si annullerebbe per i rialzi equivalenti delle emissioni di gas serra dei paesi extra Ue, che aumenterebbero le loro produzioni per coprire il fabbisogno dei cittadini europei.

Allora come se ne esce? Come sempre, tenendo uno sguardo attento sulla realtà, per non cadere nelle ideologie del nostro tempo che sono le “buone intenzioni di cui è lastricato il nostro inferno”.

Soffermiamoci sulla richiesta europea di portare al 25% la superficie coltivata a biologico: oggi la superficie agricola biologica in Italia è del 16,6% di quella totale, cioè siamo già oltre metà strada per arrivare all’obiettivo richiesto. Ma che tipo di biologico abbiamo oggi in Italia? Senza voler ora entrare nella discussione sulla qualità di queste produzioni, sulle loro effettive rese e sugli agrofarmaci usati, c’è una criticità molto importante che non aiuta lo sviluppo di questo tipo di agricoltura e di conseguenza il raggiungimento dell’obiettivo di sistemi alimentari sostenibili richiesto da Farm to Fork.

Osservando le superfici a biologico vediamo – dati del 2019 – che circa 610.000 ettari (oltre il 30% del totale) sono destinati a prati permanenti e a terreni a riposo e quindi è lecito chiedersi quale sia stata la produzione di questi terreni. Quanti prodotti di origine zootecnica sono stati ottenuti da questi prati permanenti biologici e poi commercializzati?

Se prendiamo in esame altre colture, la domanda è la stessa: quanto biologico arriva al mercato finale e crea una vera filiera produttiva e remunerativa, invece di essere solo una scelta per ottenere il contributo Pac specifico?

Ecco, è necessario che tutto il “mondo bio” (alcune filiere già lo fanno) agisca in una logica di mercato e di sostenibilità, non finalizzando le proprie produzioni alle scorciatoie dei vari sostegni e abbia il coraggio di non aderire al peso dominante delle opinioni correnti, che propongono un’immagine di realtà deformata, contraddicendo la quale si resta esclusi dal consenso sociale di fondo.

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