Don Gino Rigoldi è stato per oltre 50 anni il cappellano del carcere penale minorile Cesare Beccaria di Milano e si appresta, ora, a lasciare il suo posto a don Claudio Burgio, suo amico di vecchia data. “Sono dimissioni formali”, rassicura Rigoldi in un’intervista per Avvenire, “la realtà è che continueremo a lavorare insieme. Siamo due parti complementari: lui con i ragazzi è straordinario, io faccio la parte delle relazioni, del dialogo con le istituzioni e le autorità”.



A muovere la ‘vocazione’ di don Gino Rigoldi nei confronti dei giovani in carcere era il tentativo di avvicinarsi a loro per ascoltarli e capirli, oltre che per aiutarli. “Quando si ascolta qualcuno”, spiega, “non si deve avere paura, ma capire cosa gli è successo“, instaurando un vero rapporto e non solo uno circostanzialmente dettato dalle esigenze lavorative. In passato la maggior parte dei giovani che arrivavano al Beccaria, ricorda don Gino Rigoldi, “provenivano dal Sud” e “a differenza dei reati della sopravvivenza che vediamo oggi” compivano quasi sempre “reati di possesso e potere”, mentre ora “gran parte dei ragazzi non sono nati in Italia ma in paesi lontani, dove molti sono ancora analfabeti. Sono quasi tutti arabi e di fede musulmana”.



Don Gino Rigoldi: “Ai giovani in carcere va offerto lavoro, non ramazine”

Con la nuova geografia dei giovani carcerati secondo don Gino Rigoldi è chiaro che “serve un altro linguaggio: sono qui per lavorare e capiscono se offri loro qualcosa che li avvii al lavoro. Hanno bisogno che chi gli parla si occupi di loro, senza avere la predica in tasca”, tenendo sempre in mente che devono capire “che il male che hanno fatto è un male”, ma anche che “li stai aiutando a uscire e trovare un lavoro”.

Insomma, lavoro e ascolto al posto di punizioni e ramanzine per i giovani in carcere, ma secondo don Gino Rigoldi è anche importante risolvere, prima, i problemi che interessano le comunità di accoglienza. “Oggi le comunità sono intasate“, spiega, “e hanno il tappo dei 18 anni”, mentre il modello francese delle “jeunes maison, case che ospitano 15-20 ragazzi provenienti da comunità o senza casa, dove c’è un educatore” potrebbe funzionare. Differentemente, gli attuali cosiddetti alloggi per l’autonomia, secondo don Gino Rigoldi, oltre a non andare bene perché “chi esce da una comunità non ha grande autonomia”, sono anche luoghi deprimenti, nei quali i giovani “si limitano a sopravvivere“, perché manca la “condivisione e soprattutto la cultura”.