Al Teatro Oscar deSidera di Milano l’11 maggio debutta “Hiroshima mon amour”: per l’occasione, abbiamo intervistato Fabrizio Sinisi, drammaturgo, autore dell’adattamento teatrale dell’omonima sceneggiatura cinematografica. In scena Valentina Bartolo e Francesco Sferrazza Papa, accompagnati dalle musiche dal vivo di Corrado Nuccini. Regia di Paolo Bignamini.
Nel 1959 Hiroshima mon amour fu una delle pietre miliari della Nouvelle Vague, ma fu anche molto di più. Come suggerisce il titolo, con la sceneggiatura di questo film Marguerite Duras ha voluto confrontarsi con una tragedia mondiale, ma in chiave intima, simbolica e carnale al contempo, evocando una relazione amorosa tra un architetto giapponese e un’attrice francese. Fin dai primi fotogrammi del film assistiamo alla sovrapposizione tra i corpi intrecciati dei due amanti e quelli bruciati, deformati, dei sopravvissuti all’esplosione di Hiroshima. Perché questo accostamento?
Perché noi tendiamo a vedere le vicende personali, intime, separate rigorosamente dalle vicende della Storia. È una separazione tutta nostra, e tutta artificiosa; le forze che determinano i movimenti storici generali sono riproduzioni esponenziali di forze che stanno nei microcosmi degli esseri, che determinano i destini dell’individuo, o di una famiglia. I due livelli si specchiano continuamente l’uno nell’altro. Marguerite Duras intuisce benissimo, prima e meglio di tutti, che i corpi degli esseri umani sono il punto di caduta, misero e insieme glorioso, delle grandi vicende mondiali; che l’orizzonte della bomba e quello del mondo che continua dopo di essa è l’orizzonte di due corpi, di due esseri umani fisici e mortali che devono fare i conti con le proprie vite, con l’altro, con l’esperienza dell’amore, con il desiderio disperato di essere felici nel mondo, e non nonostante il mondo, e qui si giocano tutto.
La scommessa che ti ha impegnato nell’adattamento drammaturgico ha un intento molto chiaro: strappare il testo della Duras al tempo astratto della pellicola, per offrirlo nuovamente al “qui e ora” dell’avvenimento teatrale. Cosa comporta questo passaggio dallo schermo alla scena?
Comporta il fatto, banale ma straordinario, che abbiamo in scena due esseri umani nuovi, Valentina Bartolo e Francesco Sferrazza Papa. Il loro compito non è riprodurre il testo della Duras o il comportamento di chi l’ha “eseguito” in un film o in una rappresentazione del passato, ma farlo accadere, come tu giustamente dici, nel “qui e ora” del palco. Verificare, ogni sera, quell’agone profondo che è in realtà questo testo. Che, portato dal cinema al teatro, rivela appunto la sua natura agonica, fatale, è davvero un corpo a corpo drammatico, che si gioca in una presenza.
Come ti sei trovato nel confrontarti con la lingua della Duras?
Particolarmente bene, perché la lingua di Marguerite Duras è poetica, lussureggiante e insieme violentissima. Tende a un eccesso, a un “troppo” in cui ritrovo tante di quelle che sono anche le mie esigenze espressive: è tutto antinaturalistico, irrealistico, e proprio tramite questo “eccesso di finzione” raggiunge una verità iperletteraria e tanto più reale e profonda di quella del documento. Per questo torno ancora a dirti: secondo me, a questa lingua, il teatro giova anche più del cinema.
“Un’opera d’arte che funzioni riattiva nello spettatore la storicità dei suoi sentimenti, il suo bisogno fisico e mimetico di sperimentare ciò che è terribile, e al tempo stesso il suo desiderio di poterlo capire con certezza, di potergli dare un senso” (Realismo globale, 2018): sono parole di Milo Rau, un regista teatrale svizzero impegnato da diversi anni nel ripercorrere le tragedie impresse nella memoria collettiva. Nei tuoi ultimi lavori rintracciamo una traiettoria simile: prima con La gloria (2021), incentrato sulle vicende di un giovane Hitler, poi Incendi (2022), dedicato a due membri della Gioventù Hitleriana, e ora il disastro di Hiroshima. Da dove nasce questa urgenza di interrogare la Storia?
Da un lato c’è una passione per interrogare – è giusto il verbo che hai usato – gli eventi del passato per capire dove si sono giocati destini che oggi sembrano far parte della struttura stessa delle cose. È qualcosa che c’entra molto con la memoria, che è uno dei temi di questo spettacolo: la memoria è il fondamento dell’identità. E spesso la memoria è per noi – almeno, istintivamente, spesso lo è per me – intesa come una forma di automatismo, come se quello che ricordiamo fosse quello che, per caso o per incuria, è rimasto della vita in fondo alla mente. È una nozione che credo vada combattuta: la memoria è oggetto di un lavoro, deve esserlo, alla memoria va continuamente data sostanza, e voce, e linguaggio. Non per imparare dai suoi errori, ma, al contrario, per trovare dei percorsi, a volte perduti, a volte interrotti, riaprire dei discorsi su cui è rimasta una ferita o un equivoco.
Il nostro presente brucia, come quello della Duras, e deve fare i conti con ferite mai guarite del tutto. Il pensiero corre immediatamente alla guerra in Ucraina e al fantasma del nucleare che si affaccia in Europa. Mi tornano in mente anche le parole di Roland Barthes, quando descriveva il presente della tragedia greca come la “trasformazione di un passato in futuro” (Le théâtre grec, in R. Barthes, Œuvres complètes, 2002). Per un assurdo capovolgimento temporale, l’orrore del passato torna a farsi imminente: dalla cenere divampa un nuovo incendio. Perché portare questo incubo a teatro?
Perché la Duras dimostra che non è solo un incubo. La protagonista di questo testo è espressione di questo paradosso: ha amato un carnefice; e ora ama una “vittima”. La peculiarità di un testo incentrato sulla bomba, che ha Hiroshima persino nel nome, è che a Hiroshima una memoria interrotta si riapre, riprende a sanguinare ma anche a fiorire, che Hiroshima non è solo il nome dell’incubo ma anche quello di una comunità. La tentazione è certamente quella di dire “tutto è incubo”. La realtà, leopardiana, è che come formiche l’uomo ritorna a costruire il nido devastato, e nell’incubo incardina di nuovo la vita. Non so se questo è folle, o velleitario, ma è commovente e i due protagonisti di questo lavoro dimostrano che l’uomo non può tollerare la fine.
(Gianmarco Bizzarri)
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