Non finirà tanto presto questa ondata di remake live action, o perlomeno non disegnati, con cui Disney sta ricalcando il proprio repertorio, almeno non fino a che gli incassi sono esorbitanti – al netto quindi di recensioni negative e di basso gradimento degli spettatori – come nel caso di Aladdin, remake del classico del 1992 firmato da uno specialista dell’azione come Guy Ritchie.



Al centro di questa versione c’è Will Smith nei panni del genio della lampada, richiamato dal letargo dal ragazzo che dà il titolo il film: i suoi tre desideri gli serviranno prima per conquistare la bella Jasmine e poi per sconfiggere il viscido Jafar e il suo proposito di diventare sultano.

Il regista e John August ricalcano abbastanza fedelmente la sceneggiatura originale, allungando le presentazioni e gli intermezzi tra una canzone e l’altra (il film dura 38′ in più dell’originale), immettendo nuovi temi più in linea con il pubblico e il contesto contemporaneo – per esempio, la volontà di Jasmine di succedere al padre come sultana – e ampliando le coreografie dei numeri musicali con l’aggiunta di una nuova canzone, “La mia voce”, che ricalca appunto il tema femminista.



Aggiunte, variazioni, aggiornamenti digressioni che non rendono Aladdin qualcosa di molto diverso da un what if, ossia una curiosa operazione per vedere se e come sia possibile realizzare un film “dal vero” e con attori il più possibile simile a un film animato (Burton con Dumbo ha invece fatto un’operazione abbastanza diversa seppure fedele nello spirito; gli altri invece hanno finora ricalcato inquadratura per inquadratura). Ritchie guarda come ispirazione al musical bollywoodiano, per colori coreografie e sfondo sociale (le classi, il genere), cercando di inserirci dentro l’umorismo frenetico di Smith, un romanticismo bigger than life che non si usa praticamente più e le scene d’azione a lui care.



Il pastiche però, tolti un paio di momenti spettacolari come l’ingresso a corte di Ali Ababwa, non riesce a prendere corpo o vita, la verve è affidata agli effetti digitali più che agli attori o alle idee di regie, il ritmo e la verve si posano molto spesso e Ritchie non sa trovare la chiave per fare il film suo, anche quando prova a scimmiottare sequenze acrobatiche che fanno rimpiangere Prince of Persia.

Sarebbe inoltre inutile chiedere agli attori una mano essendo, Smith escluso, tre casi di totale assenza di carisma, specie il protagonista Mena Massoud e ancor più l’antagonista Marwan Kenzari, che impallidiscono di fronte al ricordo dei loro originali disegnati. Eppure, anche di fronte a tutta una serie di inciampi che rendono il film non all’altezza di un budget di 180 milioni, il pubblico accorre: e non crediamo sia il nuovo pubblico infantile a fare la fila, quanto i loro nostalgici genitori, convinti di poter rivivere quelle emozioni provate 20, 30 o 40 anni prima. Il marketing della nostalgia vince anche contro l’evidenza.