“I capelli di Cesare non sono diventati bianchi, si sono illuminati. Cesare non invecchia, Cesare matura! Ave, me!”. Per congedarsi dal cinema, Alain Delon ha scelto nel 2008 un film che apparentemente fa macchia nel suo percorso d’attore, Asterix alle Olimpiadi, versione con attori dei celebri fumetti di Uderzo e Goscinny, pieno di effetti speciali e pensati per un pubblico infantile. Eppure nel monologo citato in apertura, Delon – che interpreta niente meno che Giulio Cesare – parla di sé, cita la sua carriera, ne fa un consuntivo perfetto per chiuderla e al tempo stesso dice qualcosa di definitivo sulla sua natura di divo. I divi (parola che etimologicamente calza perfettamente con Cesare) non invecchiano, stanno lì imperituri come icone.
Delon è stato un’icona praticamente fin dai suoi esordi, capace di dare corpo e profondità a un viso di bellezza sconcertante e misteriosa, attraverso una sapiente gestione della sua voce, della sua prossemica, anche dei suoi ruoli evidentemente: quando René Clement lo chiama per interpretare Tom Ripley in Delitto in pieno sole (1960), il film che lo impone al mondo, Delon ha cominciato a recitare da tre anni, quando ne aveva 22, e aveva alle spalle un’adolescenza tumultuosa fatta di famiglie adottive, orfanotrofi e servizio militare trascorso in gran parte in cella per indisciplina; quando torna in Francia, vive da bohemien, ma la bellezza lo fa notare e lo indirizza al mondo del cinema e successivamente al teatro.
E un’icona del cinema francese Delon lo è stato fino alla sua morte, avvenuta a seguito di un linfoma all’età di 89 anni, anzi è stata l’icona per eccellenza di un’intera cinematografia, insieme a Catherine Deneuve, lo è stato perché ha incarnato tutte le sfumature di un’industria nazionale – l’eroe dell’avventura, il guascone della commedia, il poliziotto e il gangster, il volto scavato dal dramma e dalla Storia, la seduzione (La piscina, con Romy Schneider e Jane Birkin è uno dei film più sensuali della storia del cinema) e il dolore – e perché ha saputo portare quelle incarnazioni nel mondo, come un vessillo: Visconti vede subito il talento e la potenza iconografica di quegli occhi anche in bianco e nero e gli affida in modo inusitato (un francese che interpreta un lucano) il ruolo di Rocco Parondi, il pugile emigrato a Milano di Rocco e i suoi fratelli, uno dei film cardine con cui il cinema italiano ha cambiato le sue regole e il suo rapporto con il mondo, anche grazie all’inclassificabilità di un attore che con lo stesso identico fascino può essere un pugile povero immerso nel degrado e un principe siciliano, come nel Gattopardo, sempre diretto da Luchino Visconti.
A Hollywood non arrivò praticamente mai, nonostante la sua carriera sia iniziata con quella meta, ma il mondo lo girò lo stesso come Zorro o come ineffabile e inafferrabile musa del cinema di Jean-Pierre Melville, che lo consegnò all’empireo dei noir, passando in un decennio da volte prediletto dei maestri modernisti (Antonioni, per esempio, o il Joseph Losey del magnifico Mr. Klein) a straordinario cantore del cinema popolare, soprattutto il polar, il poliziesco d’oltralpe, forse il suo genere d’elezione, come dimostreranno anche i suoi due film da regista, apprezzabili e sottostimati come Per la pelle di un poliziotto e Braccato. Gli anni ’80, con il mercato cambiato e l’invadenza anche produttiva della tv, portarono la sua carriera a un inevitabile declino, riscattato dal suo fascino e talento ancora indomiti, dalla sua capacità di bucare lo schermo e a qualche scelta strepitosa come quella che nel 1990 portò finalmente Delon a lavorare con un “giovane turco” del calibro di Jean-Luc Godard in Nouvelle Vague, a giocare sulla natura poetica e insondabile della sua immagine, del suo status di divo.
In mezzo, una vita realmente inafferrabile, costruita proprio come si costruirebbe un cliché di maschio cinematografico degli anni ’60, playboy incapace di trovare una serenità familiare, continuamente in cerca di un’avventura sentimentale possibilmente con un’attrice o una ragazza del jet set, non priva di drammi, più per chi lo circondava che per lui stesso, come il figlio avuto dalla relazione con la cantante Nico, mai riconosciuto e condannato a una vita difficile, come il padre, tra famiglie adottive e una morte solitarie; poi la vecchiaia, la depressione, il ritiro, le violenze subite dalla badante e quelle inflitte ai figli, le posizioni politiche scomode (non tanto la vicinanza a Le Pen padre, quanto le frasi razziste e omofobe) che l’aura divina hanno sporcato.
Eppure, il suo status iconico resta immacolato, lo dimostra la capacità di sfondare lo schermo anche quando è quello minuscolo dei cellulari, che gli hanno regalato l’onore anche nell’era dei meme: se dovessimo spiegare chi era Alain Delon a un quindicenne potremmo fargli vedere alcuni film certo, ma forse basterebbe la foto, divenuta virale, di Delon in impeccabile completo grigio che ruba l’attenzione di Marianne Faithfull mentre il suo compagno dell’epoca, Mick Jagger, il cantante più cool della storia del rock, è messo in un angolo, come un uomo qualunque. Potere di un’icona.
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