La vicenda della mancata convalida della permanenza degli emigranti presso la struttura impiantata in Albania ha creato il propagarsi di diversi effetti. Le toghe si sono divise al Csm, con il “no” di Magistratura indipendente all’apertura di una “pratica a tutela” dei giudici di Roma che hanno bocciato il governo sui migranti. A sottolineare la divergenza politica fra le correnti del Csm, i sette togati di Mi hanno affermato come sia mancata, nel documento di richiesta di apertura del fascicolo a tutela, la necessaria presa d’atto dell’inopportunità delle dichiarazioni pubbliche in precedenza rilasciate da un componente della sezione immigrazione, firmatario dei provvedimenti, con le quali era già stata più volte manifestata una precisa e netta posizione di contrarietà alla normativa da applicare.
La maggioranza, di contro, si ricompatta su una posizione di forte contrapposizione nei confronti della magistratura, per non dire di discredito. Sull’onda della contrapposizione riprende vigore la discussione sulla responsabilità delle toghe, per merito di Enrico Costa, che ha rilanciato – attraverso la predisposizione di un emendamento – l’obbligo di trasmissione degli atti alla Corte dei Conti ogniqualvolta venga riconosciuta un’ingiusta detenzione: l’organo di controllo contabile sarebbe pertanto chiamato a valutare se vi sia o meno una responsabilità, agendo poi nei confronti del singolo magistrato. In sostanza una forma di primo vero vaglio sulla responsabilità in caso di ingiusta detenzione che poi – nelle intenzioni del proponente – potrebbe essere esteso anche alle inchieste flop, quanto meno nell’ottica di introdurre un criterio di merito per valutare l’impatto economico degli errori giudiziari.
Senza voler in questa seda tornare nel merito della vicenda giudiziaria, già ben messa a fuoco in queste pagine, non si può non costatare come siamo in presenza di uno scontro culturale tra chi ritiene di dover privilegiare, sempre e comunque, i diritti umani fino a dilatare oltre i limiti delle concrete possibilità di uno Stato e della sua popolazione l’accoglienza indiscriminata, e chi mostra più attenzione alla sicurezza e alla difesa dei propri confini e dei propri cittadini. Ebbene, tale scontro, in cui – per quel poco che conta – chi scrive non ha dubbi nello schierarsi con i primi, dovrebbe essere limitato al recinto della politica. Purtroppo, così non è. L’auspicio, allora, è che questa sia l’occasione giusta per azzerare tutto e ricominciare daccapo, prendendo consapevolezza che una stagione storica, durata una trentina d’anni, si è conclusa e che l’interesse della collettività è volto alla salvaguardia della credibilità delle sue istituzioni: si badi, sia l’una che l’altra. Come dire, che se le dichiarazioni di certi politici sono state palesemente fuori tono, lo sono anche quelle di chi, nella magistratura, ha affermato che “Questo è un governo sovranista che non rispetta le leggi europee e punta a zittire la magistratura. Non resteremo in silenzio e difenderemo la nostra autonomia e indipendenza. Non vogliamo fare la fine di Ungheria e Polonia”.
Tutti invocano il rispetto della separazione dei poteri ma nessuno delle parti in causa fa un vero primo passo. Proviamo allora a formulare una proposta.
Il punto da cui ripartire, ammesso che ambo i contendenti siano davvero intenzionati a farlo, affinché l’amministrazione della giustizia penale esca dalla crisi in cui si trova, sarebbe quello di mettere in soffitta il giudice-legislatore. Nato se si vuole per necessità, stante talune oggettive inerzie o incapacità del legislatore, è ben noto a tutti gli addetti ai lavori quanto sia oramai consolidata la tendenza da parte di certa magistratura ad emanare decisioni che superano la cornice dei significati ragionevolmente attribuibili al testo della legge. Per dirlo alla Ferrua, ovvero uno dei maestri della scienza processual-penalistica, sotto l’alibi della insopprimibile interpretazione si procede troppo spesso alla creazione di nuove disposizioni.
È il fenomeno, ampiamente diffuso, delle sentenze “creative”, che contraddice uno dei fondamentali principi del nostro ordinamento giuridico: la soggezione del giudice alla sola legge, costituzionalmente garantita dall’art. 101 comma 2 Cost., che poi è la norma da cui giustamente discende la garanzia dell’indipendenza della magistratura dalla politica. È sin troppo evidente anche agli occhi del non tecnico che il principio si vanifica se il giudice procede, anche mosso dai migliori fini, ad adoperare lo strumento dell’interpretazione per piegare la norma fino al punto di conferirle un significato che di fatto ella non presenta. Inevitabilmente ciò determina la svalutazione dell’autorità della legge, a tutto vantaggio di un esorbitante potere “creativo” dei giudici.
Da oltre un paio di decenni assistiamo, con un sostanziale silenzio anche da parte dell’avvocatura, a un progressivo distacco del “diritto vivente”, di origine giurisprudenziale, dal “diritto vigente”, ossia quello legislativo. L’approdo finale di tale processo, sempre mutuando le parole di Ferrua, è una grottesca inversione delle due sfere: oggi è il diritto vigente ad inseguire il diritto vivente, a tradurre in legge le interpretazioni “creative” della giurisprudenza.
Questa prassi consolidata, oramai entrata anche nei manuali universitari di diritto, disvela in realtà niente altro che l’essenza del duello che, come si diceva poc’anzi, si trascina da circa trent’anni e che si articola su un confine sottilissimo: da un lato il rispetto delle regole, dall’altro il rischio di invadere il campo della politica. Per essere ancora più espliciti: la posta in gioco è chi abbia il diritto di decidere. La separazione dei poteri è ovviamente la pietra miliare su cui si erige lo Stato democratico ma, su questo è bene essere chiari, il primato spetta alla politica, anche quando prende strade discutibili, come quelle che per molti, compreso il sottoscritto, il governo Meloni ha scelto di percorrere sull’immigrazione.
Il crollo del sistema politico, che, pur avendo consentito a questo Paese di uscire dal secondo dopoguerra ed entrare nei sette Paesi più industrializzati del mondo, si era oramai avvitato attorno a un diffuso malaffare, ha aperto un grande vuoto, in buona parte riempito da chi quel crollo lo ha certificato con le inchieste e la gogna che ne derivava. Ebbene, quelle stesse toghe si sono sentite da lì in poi legittimate a svolgere un ruolo da guardiano nei confronti di chi è deputato dai cittadini a governare, ergendosi a custodi della Costituzione e garanti del diritto. Se davvero si vuole mettere un punto, occorre che la magistratura – meglio, quella parte minoritaria della magistratura più schierata – riesca ad autolimitarsi, ritornando nell’alveo del suo ruolo: applicare le leggi – approvate dal Parlamento – e garantire il corretto funzionamento del processo democratico.
La famosa mail del sostituto procuratore della Cassazione, che ha definito Giorgia Meloni “un pericolo più grande di Berlusconi”, è il riflesso di questa mentalità che va messa in soffitta per il bene del Paese. La magistratura non deve rappresentare l’ultima linea di difesa, altrimenti essa diventa una forza politica che usa la legge per controllare l’operato di un governo legittimamente eletto, alimentando un pericoloso cortocircuito istituzionale. Si badi, il controllo giudiziario è essenziale e tale deve restare con piena autonomia e indipendenza; semplicemente, a differenza di adesso, rispondendo dei suoi eventuali errori. Alla politica, con i suoi rischi e i suoi errori – anche se numerosi come nel caso di questi mesi – deve essere riconosciuto il compito di decidere, rispondendo dei suoi errori agli elettori.
Insomma, per il bene comune, il mantello da guardiani dell’etica pubblica e del “buon governo” va riposto con convinzione nell’armadio.
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