Alberto Guareschi, figlio del grande scrittore e giornalista Giovannino, al Corriere della Sera racconta quel papà intellettuale che tanti hanno conosciuto proprio attraverso i giornali: “Tornava dai lager nazisti. Avevo 5 anni. Mi trovai davanti uno sconosciuto con il volto magro, lo sguardo intenso e un paio di baffoni. Pesava 46 chili, compresi stracci e zoccoli. Ma sorrideva”. Il papà le ha insegnato “La coerenza e la dignità”. Eppure, lui lo ha contestato “da adolescente, e provo ancora dispiacere. Lo accusai assurdamente di essere troppo attaccato ai beni che si era procurato con il suo lavoro”.



Eppure, nonostante le accuse del figlio, il padre non ha smesso un giorno di lavorare: “Quando l’editore Angelo Rizzoli installò il marcatempo per far timbrare l’orario di entrata ai redattori di Bertoldo, mio padre prese il cartellino e ci scrisse sopra “culo”. A casa si era costruito lo studio nell’abbaino. Lavorava tre giorni e tre notti senza mai scendere. Calava con la corda un secchio e noi ci mettevamo dentro i generi di conforto: acqua, caffè, arance”. Con la sua penna, ha venduto tantissimo: “Saremo sui 25 milioni di copie. Ogni anno escono tre o quattro edizioni all’estero, l’ultima in turco. È pubblicato ovunque, persino alle Samoa. Tranne che in Cina. Lo hanno tradotto in greco antico e latino, in varie lingue con il metodo Braille e persino in milanese, friulano, bergamasco, bresciano e comasco”.



Alberto Guareschi: “Al funerale di papà nessun politico”

Nei libri del papà, Alberto Guareschi era “Albertino”: “Mi assegnò questo nome letterario. Poi nel 1957 mi ribattezzò Sputnik, perché, pur rimanendo nella sua orbita, mantenevo sempre la distanza di sicurezza”. Oggi, il figlio di Giovannino, cura le opere di suo padre: “Per 30 anni ho fatto il ristoratore qui a Roncole Verdi. In seguito mi sono dedicato completamente a curare i volumi postumi di racconti”. Delle opere del papà, “Il valore letterario non lo hanno aumentato i film, semmai lo hanno leso. Il compagno Don Camillo di Luigi Comencini è un completo tradimento del libro. Da tre sceneggiature mio padre ritirò la firma incavolato”.



Per questo, il rapporto con i cineasti non sempre fu semplice: “S’intese poco o nulla con Julien Duvivier, il regista del primo Don Camillo. Però lo stimava: “È talmente bravo che può permettersi il lusso di essere antipatico”, ammetteva. Rizzoli, proprietario della Cineriz, dovette rivolgersi a un francese perché i registi italiani si erano eclissati, temendo le reazioni del Pci. In precedenza aveva tentato d’ingaggiare Vittorio De Sica, ma ne ebbe un rifiuto”. Ai funerali del papà, non andò “Nessun politico. Pochi colleghi: Carlo Manzoni, Giovanni Mosca, Nino Nutrizio, Alessandro Minardi, Baldassarre Molossi, Enzo Biagi, Ferdinando Palermo. Ricordo, seminascosto, Enzo Ferrari, il cui figlio, Dino, aveva trovato conforto nei libri di mio padre durante la malattia che lo uccise”.