Tra le tracce proposte dal Ministero per la Prima Prova della Maturità 2023 – Tipologia A, Analisi del testo – anche un brano tratto dal romanzo “Gli indifferenti” di Alberto Moravia. La richiesta per lo studente verteva, oltre alla comprensione e analisi del brano, anche su un’interpretazione elaborando una propria riflessione sulla rappresentazione del mondo borghese criticato da Moravia (ponendo correlazione con altri autori che affrontarono quel tema specifico della borghesia).



SVOLGIMENTO TRACCIA A2 – brano tratto da “Gli indifferenti” di Alberto Moravia

COMPRENSIONE E ANALISI

Il brano proposto è tratto dal romanzo Gli indifferenti di Alberto Moravia, scritto nella prima metà del Novecento. Presenta un dialogo tra una madre, i suoi due figli e l’amante di lei, che vuole impossessarsi della loro villa. La preoccupazione di Mariagrazia, infatti, è quella di essere sfrattata: per evitarlo avrebbe dovuto pagare ottocento lire. A questo punto, i figli, Michele e Carla, prendono atto di ciò che sarebbe successo: avrebbero, infatti, dovuto lasciare la loro villa e andare in un appartamento di poche stanze.



In quel silenzio, sono le riflessioni del narratore a dominare la scena e a descrivere bene quali fossero le paure della madre. Aveva sempre vissuto ignorando l’esistenza di chi non aveva di certo il problema di vivere in una casa o in una villa, di chi viveva nella fatica. Ora lei sarebbe stata tra quelli, o per lo meno avrebbe dovuto cominciare a vivere una vita meno borghese di quella che aveva vissuto. Questo voleva dire scendere tra la gente, mescolarsi e uscire dal mondo perfetto e senza paure che aveva abitato fino a quel momento. Ma quali erano le sue paure? Non la spaventava ciò che non avrebbe più avuto, ma quello che la gente avrebbe detto di lei, quello che sarebbe stata la sua vita “senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni”. La vita da quel momento sarebbe stata per lei “oscurità completa, ignuda oscurità”: per questo pensa che avrebbe potuto trovare un compromesso con Merumeci e che il denaro per mettere a posto le cose lo avrebbe trovato.



Concretamente il problema era semplice: vendere o no la villa. Ma sono le paure dei protagonisti a far emergere altre questioni nel lettore, che si trova davanti una situazione che non si discosta di un centimetro da quelle di tutti i giorni, forse più terrificanti a distanza quasi di un secolo. Il problema da affrontare era come sarebbe stata la loro vita senza quella villa, senza poter partecipare a quelle vuote attività che caratterizzano la vita borghese, consumando e riempiendo le giornate con gente ricca, stimata ed elegante. Per questo Mariagrazia si sarebbe sentita povera e sola, senza amicizie e con il pensiero che tutti l’avrebbero abbandonata, umiliata.

INTERPRETAZIONE

La drammaticità della vicenda sta nella domanda su cosa sia la vita, quella della protagonista in particolare, senza quell’immobile, come se esso potesse realmente dominare la sua vita, determinando il suo essere, addirittura la sua sensibilità. Se lei in fondo non avesse mai conosciuto la sua vita attuale, ora non soffrirebbe per ciò che sta per esserle tolto e per ciò che non può più avere: per questo a suo parere i poveri vivono meglio, soffrono di meno. I poveri a suo avviso non sanno, vivono nell’ignoto, non conoscono l’umiliazione di chi, come lei, dovrà girovagare senza una meta, su un’utilitaria anziché su un suv, diremmo oggi. Questo pensiero, addirittura, può opprimere, può determinare l’intera esistenza se la vita è tutta qui, tra una villa e un appartamento con poche stanze, tra un ballo e l’altro.

Ciò che brucia non è la povertà d’animo, non è la fiamma del desiderio, ma quella del possedere. Ciò che spaventa non è il proprio riflesso allo specchio, ma ciò che sarebbe stata la sua vita e come gli altri l’avrebbero vista. Un pensiero infernale che schiaccia, che porta alla morte, al gesto di Pier delle Vigne, se pensiamo al XIII canto dell’Inferno. Ma questo inferno è ancora più profondo, perché altri sono i passaggi infernali che si possono avvertire in questo brano: non solo la bramosia del mondo materiale, l’ingordigia, ma anche la piccolezza dell’animo dominata dal consumismo, la filosofia che darà l’impronta al resto del secolo, fino ad oggi.
Ritroviamo nel brano il concetto di sofferenza, che ricorda vagamente quello di Schopenhauer, ma applicato ad altre questioni, perché il filosofo aveva espresso quel pensiero in relazione all’uomo intelligente che soffre di più, mentre qui la sofferenza viene legata a qualcosa di finito.

Anche le ultime parole possono farci pensare ad un finale manzoniano, in cui Renzo e Lucia si confortano perché ad assisterli c’era la Provvidenza. Ecco che appare forte il contrasto tra il mondo di quei due promessi sposi senza una lira in tasca ma ricchi di amore, che un modo per la casa e per il matrimonio loro l’avrebbero trovato (“Dio ti ha visitata”, aveva detto nei primi capitoli fra Cristoforo a Lucia): c’era qualcosa di più di una villa. Verga avrebbe parlato della “roba”: Mazzarò accumulava e accumulava, viveva per questo, ma cosa se ne sarebbe fatto di quei campi? E Mariagrazia cosa se ne sarebbe fatta di quella villa? Due contesti diversi che però introducono un mondo nuovo. Mazzarò, in fondo, era “un omiciattolo”, era fatto per la roba, come Mariagrazia, tipica borghese, era fatta per quelle cose lì. La privazione di tali beni però per lui era un’ingiustizia di Dio, mentre per loro una disgrazia a cui si poteva rimediare con la seduzione: il materiale per il materiale.

I promessi sposi, invece, con o senza roba, un modo per vivere davvero l’avrebbero trovato.

Sempre Verga aveva raccontato di qualcuno a cui una casa era stata tolta: Padron ‘Ntoni di roba ne aveva persa, dai lupini a Bastianazzo, e si era ritrovato a dover vendere l’unica cosa che possedeva realmente, che non erano soltanto quelle quattro mura, ma tutto il mare di passioni, di lacrime e ricordi che non si potevano mettere in un vaso e portare via. Cos’è successo tra Verga e Moravia? Lo sconforto del vecchio nonno trapela nelle pagine di quel romanzo e fa piangere, perché andare via da quella casa sarebbe stato come “spatriare” e come andare via dal paese, come quelli che erano partiti per ritornare e non sono tornati più. Anche la famiglia dei Malavoglia da quel momento non osò più farsi vedere per le strade di Acitrezza, ma nel cuore c’erano il dolore e la sofferenza che permetteva loro di salvarsi dalla “fiumana del progresso” che qualche vittima, da quelle parti, l’aveva già fatta proprio, come il giovane ‘Ntoni.

Cos’è successo allora? “Dio è morto” direbbe Nietzsche. In mezzo tra i due autori ci siamo noi, tutti gli ‘Ntoni e Mariagrazia schiavi di questo “secol superbo e sciocco” (La ginestra), noi che non possiamo saperlo, perché ci siamo dentro, viviamo “questa età superba, / Che di vote speranze si nutrica, / Vaga di ciance, e di virtù nemica; / Stolta, che l’util chiede, / E inutile la vita / Quindi più sempre divenir non vede” (Il pensiero dominante)”.

Ed è per questo che a primo impatto la vicenda di questa famiglia borghese non fa accapponare la pelle come quella della famiglia siciliana, perché non sappiamo più distinguere. Se prima eravamo pastori erranti in cerca della luna a cui rivolgere le nostre domande, ora siamo la greggia che giace sotto l’albero mentre la vita scorre, che sta sul divano e che non sa di esser sola ancor prima che le venga tolta Netflix, insieme alla villa, perché passare di sollazzo in sollazzo non riempie il cuore, se “uno spron quasi mi punge” (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

Quello che mi impaurisce più di tutto il resto è che io potrei non salvarmi più, potrei non vedere più la differenza tra me e loro. Da più di cinquant’anni il fenomeno dell’omologazione ,infetta più di qualsiasi altro virus, scorre impavido e silenzioso, quasi invisibile tra la folla. Seneca, in fondo, lo scriveva al suo amico Lucilio nelle lettere in cui esprimeva il suo augurio più sincero di evitare la folla, di schivare gli spassi: perché tra la folla si finisce per non riconoscersi più e per ritornare a casa più crudeli e inumani.

Quarant’anni dopo questo romanzo, Pasolini ha descritto ciò che stava accadendo in Italia, ciò che si può intendere dai comportamenti di Mariagrazia. L’uomo è fatto per consumare ed essere consumato, evidentemente. In particolare, l’italiano medio che vive il boom economico ha sposato il consumismo che Pasolini descrive come la “nuova ideologia edonistica”. Per questo ciò che spaventa è l’uniformità della folla che confonde me, diciannovenne nel 2023, con Mariagrazia, con i suoi figli e con qualunque altro italiano sia assoggettato a questo nuovo Potere, entità che scambia lo sviluppo, il progresso, l’uguaglianza con un nemico terribile che è l’omologazione repressiva, che non è positiva, che mette angoscia, che è senz’altro una recessione.

Cosa si è perso, quindi? Sant’Agostino direbbe che si è perso un “Tu”, quello onnipresente nei suoi scritti e che da lui fino a Leopardi è stato fonte di domande e interlocutore che rendeva e rende il cuore inquieto. C’era ancora un Dio, una luna a cui poter domandare, con cui poter errare, sbagliare e vagare, elevarsi ad angeli, senza ridursi a “polli d’allevamento”. Siamo davvero destinati ad essere tutti uguali, nei gesti, nelle parole? Moda e Morte non sono forse sorelle per Leopardi? Siamo davvero destinati a essere “più morti dei morti”, come direbbe Pasolini?Perché ci sentiamo più vicini a quello che dice Moravia piuttosto a quello che dice Leopardi?

L’uomo moderno, consumista, non è un uomo pensante, amante, non è un uomo che c’è per ciò che non si vede, ma che c’è, ci deve essere per ciò che vedono tutti, tanto da conformarsi al mondo. La solitudine di Leopardi, diversa da quella descritta in questo brano, poneva delle domande esistenziali come “a che val al pastor la sua vita” senza avere risposta, continuando a camminare, a conoscere la fatica e il dolore, per perseguire una felicità, la felicità che è per me e nessun altro. È dettata da ciò che accade dentro e non da ciò che accade fuori: il lusso, le auto, le feste, i divertimenti, il benessere di cui adesso non ci sono neanche le irrequietudini, perché in esso sguazziamo soltanto.

Davvero siamo fatti per quello che possono avere tutti? Che si può comprare con poco più di ottomila lire? O che si può ottenere con la seduzione? Cosa se ne fa il mondo della mia unicità, quella che mi è stata data alla nascita e che era nella mente degli dèi prima che io nascessi? In fondo, cosa me ne faccio io? Perché viene divorata dal mondo? Come si salva da subdola “oscurità completa, ignuda oscurità”?

Ci vorrebbe un amico e uno slancio, per poter dire con Pasolini: “Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli del campo”, affinché non abbiamo più “paura di avere un cuore”.

Giorgia Rogliero