La vicenda del delitto Moro, di cui oggi, 9 maggio 2020, ricorre il 42esimo anniversario del tragico epilogo, dell’esecuzione e del ritrovamento del cadavere, rappresenta sempre, nel ricordo che è stato fatto dalla maggioranza della cosiddetta “intelligencija” e dei “detective politicizzati per caso”, uno degli aspetti più perversi di quella che si può definire “ideologia italiana”.



Commissioni di inchiesta di durata interminabile e conclusioni tutte approssimative e spesso mescolate ad altre realtà. Deposizioni surreali su presunti “pendolini” che lasciano esterrefatti.

Quindi i processi e le rivelazioni improvvise, promosse subito a “verità storiche”, dettagli ripescati qua e là, ma mai, ripetiamo mai, un quadro sufficientemente chiaro e complessivo della ricostruzione dettagliata, delle cause, della ragione autentica, del perché di tutta quella tragedia italiana.



Non è ancora ben chiaro, dopo tutti questi anni, in quanti parteciparono all’azione del rapimento e della strage della scorta di Moro il 16 marzo 1978 in via Mario Fani, e neppure chi veramente sparò al leader della Dc, prima che fosse ritrovato sulla Renault rossa in via Caetani il 9 maggio dopo 55 giorni, è stato identificato con sicurezza.

Lasciamo poi perdere “le voci e le certezze” sull’appartamento-covo di via Montalcini, lo scambio piuttosto ambiguo tra via Gradoli a Roma e Gradoli paese, con l’escursione di forze dello Stato sul Lago della Duchessa.

In questi 42 anni, accanto ai volumi editi, ai discorsi, ai ricordi “volgari” (quello della statua a Maglie dedicata al leader democristiano con l’Unità sotto il braccio, come se fosse un simpatizzante comunista), ci sono state le tesi depistanti confezionate in modo grossolano, quelle ideologiche appena più falsamente raffinate, quelle opportuniste, quelle dettate solo dalle mistificazioni cocciute e ripetute.



Tutto questo, in fondo, è il nocciolo vero, appunto, dell’“ideologia italiana”: rimuovere, manipolare, improvvisare, creare dietrologie e tenersi sempre lontani dalla verità.

Sembrerà paradossale, ma un passo avanti si è fatto con l’ammissione che furono le Brigate rosse a rapire e uccidere Aldo Moro. Per anni, infatti, famosi giornalisti hanno scritto su giornali importanti le “cosiddette Brigate rosse”, alludendo a manovre di servizi segreti, più o meno deviati.

Più avanti, e ancora adesso, si fa una distinzione tra le prime Brigate rosse, quelle “pure” di Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini, da quelle, “meno pure” e magari “infiltrate”, di Mario Moretti, Prospero Gallinari, Adriana Faranda e Valerio Morucci.

In realtà, come ha scritto nel trentesimo anniversario del delitto Moro su Critica sociale uno storico come Ugo Finetti, le due principali mistificazioni sarebbero queste: da un lato Moro sarebbe stato ucciso dalla Cia su istigazione di Henry Kissinger per evitare che portasse i comunisti nel cuore della Nato; dall’altro il leader Dc “sarebbe stato soppresso dal Kgb per evitare che destabilizzasse il sistema di potere dell’Urss portando al governo l’euro-comunista Berlinguer”.

Sono due tesi senza fondamento, di comodo e di opportunismo politico da basso livello, formulate senza tenere conto della realtà. Nel 1978 Kissinger non aveva alcun potere, dopo la caduta di Nixon e il Watergate; alla Casa Bianca ci stava il democratico Jimmy Carter e il nuovo segretario di Stato era Cyrus Vance.

Il Cremlino di Breznev era in tutte altre faccende affaccendato: con i problemi che aveva in casa sfoderava il suo aspetto imperiale, mettendosi all’offensiva in Africa e in Asia.

Quanto ai rapporti tra Berlinguer e l’Unione Sovietica, dopo alcune distinzioni anche tollerate, nel 1977, in occasione del 60esimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre l’eurocomunismo era in crisi e stava letteralmente evaporando. A Mosca, il segretario comunista francese Georges Marchais non andò; allo spagnolo Santiago Carrillo non venne concessa la parola; Enrico Berlinguer parlò invece per 6 minuti e 32 secondi, per dire che intendeva difendere “tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose”. Dichiarazioni che nemmeno i sovietici potevano permettersi di contestare.

Non ci sono più polemiche nel discorso di Berlinguer, ma un riavvicinamento sancito dall’onore che gli tributano i dirigenti sovietici con la successiva pubblicazione del suo intervento sulla Pravda.

Due anni dopo, nel novembre del 1979, Berlinguer parlerà in pieno comitato centrale dell’attualità delle lezioni del leninismo e griderà furente a Giorgio Amendola “Non capisci nulla di marxismo–leninismo”.

Ma se dal contesto internazionale si passava a quello italiano, la realtà era ancora più concitata. Moro aveva risposto duramente ai comunisti nel 1977, in occasione dello scandalo Lockheed: “Non ci faremo processare da voi nelle piazze”. Poi a novembre, il repubblicano Ugo La Malfa apre una crisi e invoca l’ingresso del Pci nella maggioranza di un nuovo governo.

Moro trova una situazione di compromesso con un accordo con Craxi: un governo monocolore democristiano, con i comunisti in maggioranza, ma senza i “tecnici” che il Pci richiede e che provocano reazioni sia in Berlinguer che in Pajetta.

Lo sfondo politico che porta al governo del 16 marzo 1978 è questo, ma viene sempre dimenticato, smarrito, confuso, Potenza dell’“ideologia italiana”, che in quel momento a tutti i livelli è innamorata del catto–comunismo.

Capitano spesso queste sbandate a chi si è dimenticato persino il nome del capo della Resistenza. Chissà se i nostri valenti insegnanti di storia e i nostri studenti conoscono la figura di Alfredo Pizzoni, mai onorato in tutti i 25 aprile?

Recentemente un “guitto” italo–bulgaro parlava in televisione di un’Italia liberata dal nazifascismo per la grande tenuta dell’Urss di Stalin contro Hitler, dimenticandosi ovviamente della V e dell’VIII armata anglo–americana che risalivano l’Italia e pagavano pure la diaria ai partigiani dopo i patti di Roma del novembre 1944 (Harold Macmillan, Diari di guerra 1943–1945, il Mulino).

Ma la potenza della disinformazione dell’ideologia italiana è travolgente. Quando il 16 marzo 1978 Moro è “nella prigione del popolo”, scompare dalla terza pagina di Repubblica questo titolo: “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro segretario della Dc”. Migliaia di copie del quotidiano progressista vengono mandate al macero, ma qualcuno ne mantiene copie per un ricordo indelebile della vergogna.

Nella stessa mattinata Ugo Pecchioli, uomo del Pci che si è sempre occupato dei rapporti (anche della rete di radio clandestine) con l’Urss, si presenta nella sede della Dc e sentenzia: “Per noi è morto”. Traduzione: nessuna trattativa.

Dal “carcere del popolo” Moro comincia a scrivere lettere che invocano una trattativa e poi lancia accuse ben precise. La risposta degli intellettuali di matrice cattolica compare con una lettera e un lungo elenco di firme e spiega: “Moro non è responsabile di quello che scrive”. Praticamente viene abbandonato e visto come una specie di pazzoide. Una vergogna infame.

A questo punto la politica italiana si spacca. Bettino Craxi, il leader del Psi, suggerisce una trattativa. Si unisce a questa iniziativa anche Marco Pannella. Naturalmente la proposta di Craxi è vista come una manovra per rompere l’asse catto–comunista e guadagnare consensi, sparigliare un inevitabile processo di unità nazionale tra Pci e Dc.

È un’altra mistificazione oscena. Moro ha scritto 51 lettere. Nella dodicesima, inviata il 12 aprile a Craxi, e recapitata nella sede del Psi in via del Corso a Roma, Moro è disperato: “Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentare  che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi di accentuare la tua importante iniziativa”. Moro implora una trattativa.

Scrive ancora: “Ogni ora che passa potrebbe renderla vana. E allora ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta, che non è quella della declamazione”. Più avanti spiega: “Anche la Dc sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi subito. Non c’è un minuto da perdere”.

Quando Craxi legge queste parole su un foglietto di quaderno a quadretti non trattiene le lacrime e ricomincia la sua battaglia. Ma contro di lui c’è il blocco del “fronte delle fermezza”, costituito dai maggiori partiti e da quelli laici, ma soprattutto dalla grande stampa. Si contendono il primato del “fronte della fermezza” il Corriere della Sera, che in quel momento era mantenuto e più o meno al servizio dal “maestro venerabile” Licio Gelli, e la rampante Repubblica dell’ex fascista Eugenio Scalfari, poi diventato azionista, forse radicale, quindi socialista e infine filo–berlingueriano. Un uomo di coerenza!

Nella visione di Craxi non c’era un calcolo politico di smarcamento, ma soprattutto di un principio della nostra Costituzione, che non è “la più bella del mondo”, ma è almeno figlia del compromesso di Yalta. Fu proprio il giovane giurista Aldo Moro, ai tempi della Costituente, a difendere il principio che le persone vengono prima dello Stato, che la ragione di Stato non si baratta con  una vita umana.

Quello Stato del 1978 che alla fine si arrese all’esecuzione di Moro da parte delle Br senza trattare per non riconoscerle formalmente, venne ben descritto nel libro di Leonardo Sciascia L’affaire Moro, dove il grande scrittore paragonava quello Stato a una sorta di moribondo che sta in un letto di ospedale e all’improvviso impettisce, scende in strada e minaccia sfracelli, andando inevitabilmente verso il disastro annunciato.

PS: Chi scrive questo articolo non cambia idea da 42 anni. E ancora oggi è fiero di aver ritirato la firma dal Corriere per un anno, proprio per come era stato descritto il caso Moro. Quello che accadde si può vedere da un comunicato Ansa dell’epoca.