“L’AMICO ALDO MORO”: LA LETTERA DI PAPA PAOLO VI ALLE BRIGATE ROSSE

«Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro»: la lettera che Papa Paolo VI scrisse il 21 aprile indirizzata alle Brigate Rosse torna alla memoria in questo 9 maggio 2023, 45esimo anniversario della morte di Aldo Moro. Il presidente della Democrazia Cristiana venne ritrovato in quel triste 9 maggio 1978 nella Renault R4 rossa in Via Caetani a Roma, 55 giorni dopo la strage di Via Fani e il rapimento del politico DC: dalla lettera scritta alle BR per far liberare Aldo Moro fino all’omelia recitata il 13 maggio nel funerale del presidente democristiano passarono pochissimi giorni ma furono carichi di un affetto e amore amicale davvero profondo.



«Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce», si legge nella preghiera accorata di Paolo VI per i funerali di Aldo Moro. In quella drammatica cerimonia funebre priva delle sue spoglie mortali – per volere della famiglia, in protesta contro lo Stato – l’amico Pontefice definì l’onorevole Moro «uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico». Al netto dei misteri e dei complotti dietro il rapimento e l’uccisione inflitta dal terrorismo rosso delle BR, è sulla figura di Aldo Moro che si è scritto e raccontato molto in questi lunghi 45 anni. Proprio l’amicizia che legava al Papa e lo statista è qualcosa di intrinsecamente profondo e lo si capisce dal tono usato in quella lettera divenuta suo malgrado storica: «io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione».



IL NIPOTE DI ALDO MORO: “ERA OSSESSIONATO DALL’UNITÀ PIÙ CHE DALLA MEDIAZIONE”

Al quotidiano della CEI “Avvenire” è Angelo Picariello a ricordare oggi la memoria dell’uomo e statista che fu Aldo Moro, prendendo spunto dall’enorme lavoro dello storico Renato Moro, nipote dello statista DC. L’Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro da anni ricostruisce la memoria storica e intima dell’ex Presidente del Consiglio: «sta portando, come nelle attese, un grande passo avanti nel presentare a tutti gli italiani, e ai giovani in particolare, la sua personalità, per apprezzare cosa il Moro politico, cristiano, professore, uomo, sia effettivamente stato», spiega Renato Moro al giornale dei vescovi.



Nelle opere ricostruite, si scopre come Moro arrivò alla guida del partito in virtù di una forte e diffusa sottovalutazione, essendo considerato uomo «tranquillo e remissivo». Più che mediatore, racconta ancora lo storico, la vera ossessione di Moro «fu l’unità, fino all’ultimo». «Non intendeva fare il moderatore di un sistema oligarchico – ricostruisce lo storico Paolo Pombeni –. Le sue indubbie capacità di mediatore le usò per ottenere l’adesione a un suo progetto politico che non era la sintesi fra le diverse proposte, ma voleva giungere a un preciso obiettivo fu un lavoro pedagogico, che aveva l’obiettivo vero di portarsi dietro il Paese». Nel giugno 1977, un anno prima del “caso” che sconvolse per sempre la politica italiana, Aldo Moro al mensile di CL “Litterae Communionis” negò che vi fossero due anime contrapposte all’interno della Democrazia Crisdtiana: «sostanziale unità di intenti in cui prudenza e coraggio si equilibrano in una sintesi che dà alla Democrazia Cristiana la capacità di una presenza, costruttiva e significativa, nella vita nazionale». Come nota Picariello sull’’Avvenire”, anche nelle ultime ore prima del rapimento l’impegno di Moro era dato per l’unità di DC e del Paese stesso: «si accingeva a votare la fiducia al governo di solidarietà nazionale con l’appoggio del Pci al quale aveva lavorato, indicando per la sua guida il leader della parte più resistente, ossia Giulio Andreotti. Fino all’ultimo con l’obiettivo di tenere unita la Dc e, attraverso essa, il Paese».