Giovanni Padovani è stato condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della ex compagna Alessandra Matteuzzi, assassinata in via dell’Arcoveggio a Bologna la sera del 23 agosto 2022. Un delitto efferato commesso a colpi di martello e persino con l’uso di una panchina che l’imputato avrebbe sferrato contro la vittima quando era già a terra, finendo per ucciderla. Alessandra Matteuzzi, al momento della brutale aggressione, era al telefono con la sorella che avrebbe assistito impotente alle prime fasi dell’agguato. Per i giudici della Corte d’Assise di Bologna che ha condannato alla massima pena l’ex calciatore 27enne, l’uomo avrebbe agito per vendetta nel contesto di un piano studiato da tempo.
Tra le aggravanti riconosciute, quella della premeditazione, come si legge nelle motivazioni della sentenza riportate da giurisprudenzapenale.com, nel tessuto di una relazione nella quale, scrivono i giudici, a un certo punto sarebbe insorto un “senso di rabbia verso la vittima, che si era via via accumulato e si era poi progressivamente trasformato in un vero e proprio proposito di vendetta”. Il proposito vendicativo ascritto a Padovani emergerebbe anche da alcune note sul telefono tra cui quella che contiene la frase “La uccido perché lei mi ha ucciso moralmente, ha ucciso la mia autostima, mi ha fatto diventare apatico verso tutto e ormai sono completamente suo”.
Omicidio Alessandra Matteuzzi, le ricerche di Padovani su Internet prima del delitto
A provare in modo inconfutabile che Padovani avesse premeditato il delitto di Alessandra Matteuzzi sono, secondo i giudici, anche le ricerche su Internet da parte dell’imputato “riguardanti l’acquisto di un’arma, l’omicidio su commissione e il delitto di stalking, le conseguenze giuridiche di tale delitto, l’eventualità di dovere risarcire la vittima e la possibilità di ìritirare’ la denuncia”. Ricerche con cui Padovani, si legge nella sentenza, “con la propria immaginazione si spinse anche oltre, domandandosi quale impatto avrebbe potuto avere sulla propria vita l’eventuale espiazione di una pena detentiva in conseguenza del compimento del delitto e a quali privazioni della libertà sarebbe andato incontro, attribuendo, in modo anche un po’ infantile, prevalenza a taluni aspetti, quali l’uso del cellulare (si può usare il cellulare in carcere)” e con le quali avrebbe tentato di acquisire informazioni “sulle modalità attraverso le quali occultare il cadavere della vittima, sulla possibile fuga all’estero, con la ricerca di Paesi stranieri in cui fosse più congeniale fuggire”.
E sempre nello spettro della premeditazione, all’interno del quadro di aggravanti a carico di Padovani, si innesta la lettura della Corte d’Assise su ciò che le ricerche condotte online rappresenterebbero: “Inducono a ritenere che l’imputato, dopo avere nel mese di giugno già concepito la possibilità di compiere l’efferato delitto, e nel mese di luglio maturato definitivamente tale proposito, in concomitanza con il progressivo deterioramento della relazione affettiva, in quei giorni, preso atto dell’ormai definitiva fine della relazione, avesse deliberato di uccidere la vittima e stesse pianificando tale progetto”. La condotta omicidiaria, per i giudici di primo grado, non è stata “determinata da un mero moto d’impeto”, ma “maturata” e “progressivamente radicata negli intenti dell’omicida, sia stata persino preannunciata nelle confidenze fatte a terzi e alla madre e nelle annotazioni sul cellulare, e poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo della scelta dell’arma da usare e del luogo in cui colpire”.