Lo si era capito dall’inusuale lentezza della decisione che sarebbe finita così. La denuncia di Alex Schwazer era finita sui tavoli delle Autorità antidoping mondiale e dell’Atletica internazionale nientemeno che a luglio 2021 e formalizzata qualche mese dopo. Ci sono voluti più di due anni perché WADA e IAU verificassero la fondatezza di quanto scritto dal marciatore italiano e cioè che una ricca Federazione asiatica emergente, molto attiva e in espansione su tutti i fronti dello sport mondiale avesse schierato alle ultime Olimpiadi un tesserato, in precedenza radiato a vita dalla Agenzia mondiale antidoping.



La documentazione prodotta da Alex Schwazer in 63 pagine in realtà era tale che sarebbero bastate al massimo un paio d’ore per arrendersi all’evidenza e al fatto che il denunciante si meritasse quanto stabilito dai Regolamenti, cioè uno sconto di pena sulla sua squalifica.

E’ evidente che questo insolito e inaudito lasso di tempo che si sono prese le autorità sportive sia stato speso non per verificare l’attendibilità della denuncia, ma per studiare come da una parte aggirare il dovere di rimettere in gioco Alex Schwazer per le Olimpiadi di Parigi, dall’altra per trovare un modo per limitare il più possibile o addirittura annullare la sacrosanta sanzione per quella Federazione, che ha truffato i regolamenti prendendosi gioco di chi (la stessa WADA) aveva escluso a vita dall’attività sportiva agonistica quel tesserato.



Come motivazione del rifiuto della WADA di applicare i suoi stessi regolamenti, il marciatore ieri ha tirato in ballo il docufilm di Netflix sulla sua vicenda (“Il caso Alex Schwazer”). Il NO della WADA (a fronte di un sì invece dell’Athletics Integrity Unit) secondo lui sarebbe una vendetta per una operazione mediatica che aveva gettato discredito universale sulla stessa Agenzia Mondiale Antidoping. Può essere.

Non sarebbe da escludere un simile arrogante abuso di potere in una “organizzazione a delinquere” come l’aveva definita il giudice di Bolzano Pelino nella sua famosa Ordinanza. Ma temiamo ci sia anche dell’altro. Siamo a poco più di un anno dalle elezioni del nuovo presidente del Comitato Olimpico Internazionale e questi sono mesi cruciali per stringere alleanze per chi ambisce a quella poltrona. Inimicarsi una Federazione molto attiva politicamente e che ha influenza anche sul voto di altre Federazioni non è proprio il caso, con buona pace di Schwazer, dei regolamenti e dell’etica.



“Sono molto preoccupato per la politicizzazione dello sport” ha detto recentemente Thomas Bach, da 10 anni presidente del CIO. Queste folgoranti rivelazioni di solito arrivano a fine mandato…