COS’È SUCCESSO A VERMICINO
Tra poco saranno passati 40 anni esatti da quel terribile 10 giugno 1981: la storia di Alfredino Rampi, il bimbo caduto e purtroppo morto nel pozzo artesiano di Vermicino (Roma) dopo tre giorni di tentativi disperati di soccorso nei cunicoli del terreno. Pochi anni fa in Spagna con il dramma di Julen, un altro bambino che non ce l’ha fatta dopo la caduta in un pozzo profondo, si è improvvisamente ricordato l’immenso dramma nazionale vissuto attimo per attimo con un’estenuante diretta tv: «In questo Paese manca ancora a livello diffuso la cultura della prevenzione», è la triste e amara considerazione fatta oggi all’ANSA dalla mamma di Alfredino, Franca Bizzarri Rampi.
Il suo piccolo Alfredo, 6 anni, morì in quel dannato pozzo vicino a Frascati nell’estate afosa del 1981: a quei tempi la famiglia Rampi stava trascorrendo una vacanza nella seconda casa di Via di Vermicino, a pochi passi da Roma. Papà Ferdinando, mamma Franca, due amici e per l’appunto il figlio Alfedo: nel tardo pomeriggio andarono tutti a fare una passeggiata e verso le 19.20 Alfredino chiese al papà di poter continuare la strada da solo, probabilmente per dimostrare a sé e alla famiglia di essere “grande”. Ferdinando acconsentì e quel “permesso” non se lo sarebbe poi mai più perdonato: quando infatti tutti rientrarono a casa verso le 8, il bimbo non c’era e dopo ricerche disperate di quasi un’ora chiamarono le forze dell’ordine.
LA CADUTA NEL POZZO
Vicini, poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco e unità cinofile, tutti cercarono per ore Alfredino Rampi finché si arrivò vicino ad un pozzo artesiano, cui inizialmente non venne considerato dato che era chiuso da una lamiera. Narrano le cronache dell’epoca però che il brigadiere Giorgio Serranti non fosse del tutto convinto di quel pozzo e lo fece lo stesso ispezionare: appena rimossa la lamiera, si udirono i gemiti e debolissimi lamenti del bambino che dunque si scoprì vi era caduto dentro. In un secondo momento si scoprì che il proprietario del pozzo e del terreno (Amedeo Pisegna) aveva piazzato la lamiera per chiuderlo attorno alle 21 non immaginando che Alfredino Rampi vi fosse caduto dentro. Il 44enne abruzzese venne poi arrestato con l’accusa di omicidio colposo e violazione delle norme di prevenzione degli infortuni. Ma tornando ad Alfredino, quei tre giorni tra il 10 e il 13 giugno si consumò un’autentica tragedia familiare e, vista l’eco mediatica che vi fu, anche nazionale. Il pozzo artesiano era profondo circa 30 metri, con un’imboccatura larga non più di 30 centimetri: i soccorsi furono fin da subito complicatissimi e il primo tentativo di scendere a recuperare Alfredino fu un autentico fallimento. Si cercò di calare una tavoletta di legno che però si incastrò scesa ai 24 metri, con tanto di corda spezzata: grazie ai tecnici della Rai giunti nella notte, si riuscì a calare dei mezzi per poter comunicare con Alfredino.
GLI ULTIMI TENTATIVI E LA MORTE DI ALFREDINO
Il giorno dopo era ormai chiaro che il bimbo non potesse essere recuperato dall’imboccatura del pezzo e così si puntò sul secondo e alternativo tentativo: scavare due tunnel a fianco, verticale e orizzontale, per raggiungere il punto esatto della trappola infernale. Ma il problema fu proprio lo scavare dato che il terreno era assai complesso da affrontare: Alfredino si diceva spaventato e chiedeva spesso di poter bere, ma il tutto venne complicato da una cardiopatia congenita che avrebbe portato da lì a qualche giorno il piccolo Rampi ad un’intervento al cuore. Si stancava in fretta quando parlava con i genitori e i soccorritori e si decise dunque di accelerare le operazioni per provare a salvargli la vita, il tutto davanti alle telecamere della Rai che a quel punto decisero di filmare il salvataggio. Il 12 giugno Alfredino smise di rispondere alle chiamate e verso sera la perforazione del terreno riuscì ad arrivare al punto teorico in cui si sarebbe dovuto trovare il bimbo: peccato che invece di 34 metri di profondità, Alfredino fosse scivolato a oltre 60 probabilmente per le vibrazioni del terreno durante gli scavi. L’unica soluzione fu dunque quella di calarsi nel pozzo con qualche volontario: ci provò il minuto di statura Angelo Licheri ma non riuscì a fissare per bene il corpo del bimbo viste le condizioni pessime del tunnel, e poi ancora speleologo Donato Caruso. Quest’ultimo riuscì effettivamente a raggiungere Alfredo ma il tentativo di imbracarlo andò a vuoto: si fece tirare su per riposarsi, stremato dai tentativi e poi si fece ricavare. Fallito però il secondo tentativo, Caruso annunciò la morte presunta del bambino che non rispondeva più e non si muoveva più. La mattina del 13 giugno venne calato uno stetoscopio nel pozzo scoprendo che non vi era più battito cardiaco: il corpo di Alfredino venne raccolto da tre squadre di minatori l’11 luglio, un mese dopo la caduta. Come noto, la mancanza di un’organizzazione strutturale dei soccorsi per il povero Alfredino fece nascere l’esigenza di una struttura ad hoc che fu poi creata con il nome di “Protezione Civile”.