Da decenni, dai primi anni ’90, l’Alitalia ha rappresentato per il mondo economico e politico italiano ed europeo un banco di prova dove sperimentare dal vivo nuovi processi industriali e verificarne poi il grado di resistenza e di accettazione da parte dei lavoratori e delle forze sindacali. Un fenomeno che probabilmente è nato proprio dalla decisione di quegli anni a livello europeo di rispondere alla deregulation dei cieli generata negli Usa e poi diffusasi in tutto il mondo prima della cosiddetta globalizzazione dei mercati degli anni successivi. La risposta dell’Unione europea, non formale ma sostanziale, fu quella di prevedere un percorso che negli anni avrebbe sostenuto la sopravvivenza e lo sviluppo di soli tre grandi vettori globali nel Vecchio continente: l’Air France, la Lufthansa e la British. A quel punto, lentamente ma inesorabilmente, tutti gli altri vettori più piccoli vissero una fase di crollo dei proventi generato dalla riduzione dei voli e da condizioni sempre più di “favore” riservate alle tre grandi compagnie a livello europeo e nazionale.



L’Alitalia era in quegli anni una compagnia che si avvicinava molto di più alle grandi che non alle piccole, in un Paese però già politicamente subalterno a Francia, Germania e Gran Bretagna e così si decise che per la sua compagnia di bandiera si procedesse a una lenta autoriduzione di attività per trasformarla in un vettore regionale con caratteristiche, strutture e costi di gestione però di una grande compagnia, con il risultato di frequenti e ripetute crisi sempre più gravi.



Crisi aggravate poi dall’entrata in campo dei vettori low cost che hanno definitivamente cancellato le compagnie più piccole e hanno sostituito Alitalia nel nostro Paese in modo rapido e con il consenso della politica nostrana, di quella continentale e, perché no, anche delle due grandi compagnie rimaste nell’Unione europea che si sono così accaparrate il segmento di traffico più remunerativo, quello intercontinentale, lasciando alle low cost quello di corto medio raggio, assicurandosi però che il loro intervento rimanesse molto marginale nell’ambito dei loro due rispettivi mercati nazionali.



Alitalia ha così vissuto decenni di declino che hanno visto trasformare un grande vettore globale com’era sino alla fine degli anni ’80 in un ibrido senza futuro in un mercato che, a prescindere dagli effetti della pandemia attuale, è perennemente in crescita. E se la richiesta di voli e di nuove rotte cresce e tu invece di seguire questo incremento vai contromano, sei destinato a vivere una crisi costante e senza precedenti.

Così si è deciso il non-futuro di Alitalia e all’interno di questo processo di “decrescita infelice” si sono via via innescati, talvolta volontariamente, altre inconsciamente, processi di sperimentazione industriale e sociale che hanno rappresentato modelli seguiti poi da altre aziende e altri settori. Basta fare pochi esempi per comprendere l’importanza di tali sperimentazioni.

All’inizio degli anni ’90, la riduzione di attività e la crisi hanno prodotto un estremo disagio tra i lavoratori che si è trasformato in vero dissenso con la nascita, come nella scuola e nelle ferrovie, di un forte sindacalismo di base già in contrasto con le politiche di Cgil, Cisl e Uil orientate da almeno un decennio verso un approccio a qualsiasi vertenza attraverso la logica delle compatibilità industriali. Nel trasporto aereo, e soprattutto in Alitalia, il sindacalismo di base sviluppatosi in modo forte e concreto, ha quindi rappresentato un notevole e visibile elemento di disturbo e ha oggettivamente ritardato il degrado delle condizioni di lavoro e di crisi dell’azienda, ma è stato studiato a livello nazionale da Confindustria e dai partiti in modo analitico per riuscire a comprendere come arginare le fasi più delicate e calde delle crisi in atto.

Alla fine degli anni ’90 si è proceduto allo spacchettamento dell’Alitalia come mai era avvenuto prima, con la creazione di un’Alitalia Team che doveva rappresentare la nuova azienda e mantenendo aerei vecchi e personale più anziano, chiaramente più costoso, nella vecchia azienda. Pur se industrialmente questa fu una decisione deleteria che rientrò dopo qualche anno, se ne studiarono effetti e conseguenze sia dal punto di vista della gestione complessiva dell’organizzazione aziendale, sia per gli effetti e le dinamiche innescate tra i lavoratori.

Si passò poi agli accordi capestro con Air France che dai primi anni 2000 iniziò a depredare il trasporto aereo italiano assorbendo gran parte del ricco traffico intercontinentale che Alitalia abbandonava e/o non incrementava. Accordi internazionali a perdere mentre si diffondeva il “virus” delle low cost di fatto sempre più finanziate e coccolate da società aeroportuali quasi sempre in mano pubblica e dagli stessi enti locali. La vulgata generale sui “sussidi ad Alitalia” da parte dello Stato, prima sanzionati dalla Commissione europea e poi considerati invece legittimi dalla Corte di Giustizia europea anni dopo, cioè a danni ormai fatti, divenne per politica e stampa uno dei giochi preferiti per colpire diritti e salari, sperimentarne poi le reazioni del personale e dei sindacati e la conseguente repressione che si sviluppò a livello di diritti dei lavoratori e dello stesso diritto al lavoro e del lavoro nelle aziende, in aule parlamentari e tribunali.

La crisi del 2008 si inserisce proprio in questo clima e fa perno anche su quello che l’allora ministro del Lavoro Maurizio Sacconi declinò come “sindacato complice” riferito a quei sindacati (Cgil con l’esclusione dell’allora Fiom, Cisl e Uil) che accettavano ormai le politiche aziendali e nazionali senza discutere molto e soprattutto abbandonando qualsiasi conflittualità sociale. La crisi politica e la vittoria di Berlusconi aumentarono poi in quell’occasione la strumentalità delle posizioni di tutti i partiti impegnati nella campagna elettorale e scaricarono le responsabilità sui sindacati e sui lavoratori, costruendo e determinando poi un’orrenda privatizzazione, quella dei “capitani coraggiosi”, che ridusse l’attività e il personale del 50%, aprendo così definitivamente le porte del mercato interno ed europeo alle low cost e quello intercontinentale ad Air France e in parte anche a Lufthansa. E anche in questa fase la sperimentazione si evidenziò in modo dirompente con l’applicazione in una delle aziende italiane più grandi di un processo industriale che poi fu mutuato in tante altre situazioni. Quello della costruzione di una good company libera da debiti e da tanto lavoro per lasciare nella vecchia azienda, la bad company, i debiti e i lavoratori non utilizzati.

Ma Alitalia non doveva crescer e così si ridusse ulteriormente l’attività di volo e dopo la crisi del 2014 si sperimentò la “collaborazione” con l’Etihad che però, molto più aggressiva, si appropriò di asset importanti di Alitalia come il Programma commerciale Millemiglia e gli slot per Londra, scaricò sulla compagnia italiana costi e spese senza senso e poi abbandonò la barca nel 2017. Altra crisi, altra amministrazione straordinaria e altra sperimentazione sociale con un accordo condiviso da gran parte del sindacato ma non da quello di base e soprattutto non dai lavoratori che lo bocciarono con un secco 67% in un referendum drammatico dove si chiedeva ai lavoratori di ridurre ulteriormente l’attività di volo e di mandare a casa migliaia di compagni di lavoro.

L’ultimo periodo, quello che va dal 2017 a oggi, è quello che ha visto la decisione politica di tutte le forze presenti in Parlamento, senza alcuna esclusione, di far “marcire” la situazione senza un progetto, senza prendere provvedimenti precisi, andando avanti a forza di prestiti che si sapeva, si sarebbero dovuti poi restituire. Anni buttati mentre gli altri crescevano e, nonostante la pandemia, riuscivano a sopravvivere adeguatamente utilizzando anche enormi sussidi dai propri Stati. Amministratori straordinari che invece di gestire al meglio e tentare una ristrutturazione e nuovi apporti di capitale, hanno lasciato le cose com’erano, anzi le hanno peggiorate e rese ingestibili. Un ulteriore sperimentazione che consapevolmente o meno, ha evidenziato le criticità di questo Paese sia nei due precedenti governi che si sono succeduti dal 2018 a oggi, sia di quello attuale a guida Draghi che è espressione proprio di quell’Unione europea e di quella finanza internazionale che ha affossato in questi decenni tanti settori industriali italiani e anche quello del trasporto aereo e di Alitalia.

A questo punto la soluzione ITA non rappresenta altro che un esperimento di fallimento pilotato. Industrialmente un vettore di questo tipo e di queste dimensioni non può avere alcun futuro e questo lo sanno tutti coloro che conoscono minimamente le dinamiche del trasporto aereo. A che cosa serve allora? A sperimentare in un’azienda con capitale al 100% pubblico la distruzione del contratto nazionale che era già stata applicata in Fiat da Marchionne. Quale soggetto chiamare a gestire questa fase di scontro con il sindacato e con i lavoratori se non Altavilla, cioè chi insieme a Marchionne aveva pensato e gestito l’uscita della Fiat dalla Confindustria e la disapplicazione del Contratto nazionale dei metalmeccanici. Se lo fa un’azienda pubblica possono farlo tutte le altre, pubbliche e private, e così si aprirebbe a un’ulteriore deregolamentazione della disciplina del lavoro senza precedenti. Se poi ITA fallirà si potranno sempre incolpare i lavoratori e le organizzazioni sindacali che non collaborano!

Che fare allora?

Premesso che i lavoratori e spero tutte le organizzazioni sindacali lotteranno sino alla fine contro la creazione di questo mostro senza progetto e senza testa chiamato ITA, se le forze parlamentari, scavalcate su questo come ormai su quasi tutti i temi economici, dalle segreterie dei partiti e soprattutto dal governo Draghi e dalle sue propaggini continentali, alzassero la testa e la voce, si potrebbe ancora pensare ad un futuro diverso per Alitalia.

1) C’è ancora disponibile la carta della nazionalizzazione competa di Alitalia e non di ITA prevista dalla Costituzione italiana e non emendabile da nessun regolamento europeo.

2) In alternativa si potrebbe pensare a una “discontinuità” richiesta dalla Commissione europea, ma con condizioni diverse e cioè non una discontinuità che prevede una riduzione di otre il 50% dell’attività, ma un aumento della flotta, dell’attività e dell’occupazione con 250-300 aerei nell’arco di pochi anni e un investimento adeguato sia dello Stato (i 3 miliardi già previsti per legge), sia di privati (primi fra tutti i creditori dell’azienda e i lessors degli aeromobili) che in questo caso interverrebbero con estrema celerità e soddisfazione.

Tutto il resto è “fuffa” e prevede un rapido, ulteriore e definitivo declino del trasporto aereo con passeggeri che per voli intercontinentali dovranno nella maggior parte dei casi recarsi a Monaco, a Francoforte o a Parigi e che vedranno le tariffe dei voli interni ed europei offerti dalle low cost aumentare vertiginosamente, com’è già stato previsto e annunciato.

In tutto ciò chi ne subirà le conseguenze saranno decine di migliaia di lavoratori di Alitalia e dell’intero indotto del settore, i contribuenti che pagheranno miliardi per gli ammortizzatori sociali improduttivi che verranno assegnati a chi perderà il lavoro e l’intero Paese che si troverà privo di una leva nazionale come il trasporto aereo, da sempre fondamentale in un Paese come l’Italia dove turismo e sostegno al made in Italy sono asset di primaria importanza.

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