Il vecchio detto “fare le nozze coi fichi secchi” ha ormai una sua variante aeronautica: rilanciare Alitalia coi fichi secchi. Questo è il giudizio di sintesi che si può dare dell’ultima puntata dell’ormai troppo lunga telenovela dell’azienda che aspettava Godot, il fantomatico samaritano che sarebbe dovuto arrivare dal mercato. Novecento giorni dopo il commissariamento, e dopo novecento milioni di prestito ponte quasi del tutto consumati, la squadra dei salvatori non è ancora pronta e gli addetti ai lavori che hanno potuto prendere visione del piano industriale lo ritengono inconsistente, tanto da aver coniato su Twitter la definizione di “Piano di fallimento biennale”. Chi scrive non ha avuto tale possibilità, ma ha dedotto un giudizio egualmente negativo a partire da due cose che nel progetto sembrano proprio non esserci: in primo luogo i soldi, in secondo luogo la diagnosi del paziente di cui esso vorrebbe essere la cura.
Alitalia, nozze aeronautiche coi fichi secchi
Partiamo dai soldi. Quale sarà la dotazione finanziaria, la dote che i nuovi azionisti metteranno a disposizione della nuova compagnia? Non si sa con precisione, ma in ogni caso non si è mai parlato di più di un miliardo di euro quando gli esperti del settore sono concordi nel ritenere che per effettuare un minimo di investimenti ritenuti indispensabili ne servirebbe almeno il quadruplo. Considerando che il Mef è autorizzato dall’art. 37 del decreto legge n. 34 del 2019 esclusivamente a convertire in capitale della nuova società gli interessi maturati sul prestito ponte dalla sua erogazione sino a maggio 2019 e che gli organi di stampa hanno a suo tempo quantificato i medesimi in 135 milioni e nel 15% la quota di capitale che verrebbe in tal modo coperta, tale partecipazione corrisponderebbe a un totale non di un miliardo, bensì di soli 900 milioni, una cifra curiosamente identica a quella del prestito ponte complessivo stabilito due anni fa.
È dunque ovvia la domanda di come si possa rilanciare un vettore con gli stessi capitali che sono stati assegnati in precedenza esclusivamente con la finalità di traghettarlo per un breve tempo sino alla vendita. Inoltre, i nuovi azionisti non riceveranno gratis dai commissari i compendi aziendali, ma dovranno pagarne il loro valore affinché poi i commissari possano almeno in parte rimborsare i creditori della procedura fallimentare. Quanto valgono? Nessuno ne sta parlando, ma si tratta di una domanda chiave.
Per provare a rispondere si può fare riferimento a quanto era disponibile a pagarli Lufthansa nell’autunno del 2017, durante il suo primo tentativo di acquisto. In data 16 novembre 2017 così scriveva Repubblica: “Il governo e gli amministratori straordinari Laghi, Paleari e Gubitosi, puntano invece … alla cessione della compagnia per una cifra non inferiore ai 400 milioni di euro contro i 210 messi sul piatto da Lufthansa che, per la stessa cifra, ha acquisito Air Berlin il mese scorso”.
Poiché la cessione ha per oggetto gli attivi patrimoniali, ma non i debiti, che restano alla gestione commissariale, e poiché il perimetro aziendale che Lufthansa era intenzionata ad acquisire era sensibilmente inferiore a quello che sarebbe trasferito all’attuale cordata, non è plausibile che ora la cessione possa avvenire a un prezzo inferiore a quello che Lufthansa era disponibile a pagare due anni fa. Perché i commissari non hanno venduto a Lufthansa per 210 milioni e hanno continuato a gestire loro l’azienda per altri due anni, sostenendo in questo periodo perdite ulteriori che si avvicinano al miliardo?
Seconda domanda interessante: se il capitale iniziale del nuovo vettore sarà di 900 milioni, ma di essi i 135 del Mef sono conversione di interessi, la dote di nuova cassa si riduce a 765 milioni. Se inoltre almeno 200 di essi debbono essere versati ai commissari quale prezzo dei compendi aziendali ceduti, ne restano 565. E cosa ci si fa con 565? Non si riescono neanche a comperare tre nuovi aerei di lungo raggio, al più si coprono le perdite di un anno e mezzo di gestione ai ritmi attuali con cui la gestione consuma cassa. Non bastano neppure per fare nozze aeronautiche coi fichi secchi…
Alitalia, dov’è la diagnosi?
La seconda cosa che manca al progetto attuale, come d’altra parte a tutti quelli che lo hanno fallimentarmente preceduto, è la diagnosi del paziente. Alitalia ha vissuto nell’ultimo quindicennio un susseguirsi di episodi di crisi: nel 2004, nel 2008, nel 2014 e nel 2017. In occasione di questi eventi si è sempre ritenuto che la soluzione fosse l’individuazione di un assetto azionario che provvedesse ad attuare una terapia, definita in via esclusiva sotto forma di piani d’impresa. In nessuna occasione, compresa quella in corso, l’elaborazione della terapia è stata preceduta da una diagnosi accurata delle cause di crisi. È tuttavia impensabile che una terapia indipendente dalla diagnosi, dunque una cura a caso, possa risultare coerente ed efficace. Eppure i fattori che hanno sinora reso impossibile una gestione in equilibrio di Alitalia sono facilmente identificabili e nessuno di essi completamente rimediabile dall’interno di una normale gestione aziendale. Senza pretesa di completezza possiamo indicarli nei quindici seguenti, molti dei quali concatenati in circoli viziosi:
1) Sottocapitalizzazione iniziale ed erosione patrimoniale successiva causata dalle perdite gestionali; conseguente incapacità di autofinanziamento.
2) Incapacità di realizzare investimenti adeguati nell’espansione e rinnovo della flotta.
3) Incapacità nell’espandere l’offerta all’aumentare delle dimensioni del mercato.
4) Erosione continua delle quote di mercato al crescere del medesimo.
5) Espansione dei vettori low cost sul breve e medio raggio per effetto della liberalizzazione europea.
6) Aumento del grado di concorrenza su tali mercati.
7) Continua erosione degli yields, proventi per unità di traffico, per effetto della crescente concorrenza.
8) Concorrenza falsata dagli aiuti economici concessi a livello locale ai vettori low cost.
9) Debolezza contrattuale verso i fornitori di aeromobili (lessors) a causa delle limitate dimensioni aziendali e della persistente debolezza economico finanziaria.
10) Disimpegno dal lungo raggio e vincoli sul medesimo derivanti dalle alleanze internazionali, peraltro inevitabili.
11) Concorrenza estesa e crescente di altri hub europei sul lungo raggio, favorita dalla numerosità degli aeroporti italiani, distribuiti sul territorio, i quali facilitano il drenaggio da parte dei maggiori vettori comunitari.
12) Elevati costi per l’uso delle infrastrutture aeroportuali, in particolare nell’hub di Fiumicino, dovuti a errori regolatori nella definizione dei livelli tariffari.
13) Differenze rilevanti nei livelli tariffari aeroportuali tra l’hub di Fiumicino, dal quale dipendono quattro quinti dei passeggeri di Alitalia, e gli aeroporti prevalentemente utilizzati dai concorrenti, vettori low cost in primo luogo.
14) Presenza di componenti di tassazione in favore delle casse pubbliche che accrescono ulteriormente i costi aeroportuali e danneggiano il trasporto aereo nella sua competizione con quello ferroviario.
15) Insufficienze infrastrutturali derivanti da mancati o inadeguati collegamenti ferroviari dei maggiori aeroporti i quali impediscono feederaggio ferroviario dei voli.
La lettura del lungo elenco precedente dovrebbe essere sufficiente a convincere di alcuni punti fermi. È evidente che nessuna gestione manageriale del vettore può porre rimedi sostanziali a nessuno dei fattori critici prima indicati. È altresì evidente che nessuna compagine azionaria è in grado da sola di curare il malato Alitalia; in conseguenza non esiste alcuna soluzione di mercato che possa ottenerne la sostenibilità economica.
Alitalia, due sole alternative: gestione pubblica diretta o chiusura
In assenza di soluzioni di mercato restano due sole alternative: un intervento pubblico diretto ed esteso oppure la chiusura. Solo un intervento pubblico ad ampio spettro può cercare di realizzare le condizioni esterne, di ambiente economico e sistema regolatorio, in grado di rendere in futuro sostenibile un vettore nazionale “network” che garantisca adeguati collegamenti diretti a lungo raggio da e per il nostro Paese. Nell’attesa che si realizzino tali condizioni non è inoltre plausibile che azionisti privati siano disponibili a perdere i loro soldi in Alitalia, salvo che tale ruolo possa loro garantire il perseguimento di finalità completamente eterogenee al vettore e al trasporto aereo. D’altra parte la soluzione alternativa della chiusura, ancorché auspicata da molti, ha rilevanti controindicazioni, già analizzate in dettaglio in precedenti occasioni:
1) Un vettore network che garantisca un livello adeguato di collegamenti diretti a lungo raggio da e per l’Italia è indispensabile per la competitività del Paese. Questa è la stessa ragione per la quale nel 1947 fu fondata con capitali pubblici Alitalia.
2) Esso è inoltre indispensabile per il ruolo dell’Italia come destinazione turistica mondiale. I flussi turistici di lungo raggio, quelli che apportano la maggior spesa pro capite, sono esclusivamente aerei e l’assenza di adeguati collegamenti diretti di lungo raggio è uno dei fattori all’origine del fatto che la spesa annua dei turisti stranieri che pervengono in Italia per via aerea resti tuttora inferiore di due terzi alla spesa dei loro omologhi che si recano in Spagna.
3) Chiudere Alitalia costa molto di più che salvarla. Nell’ultimo decennio, in cui Alitalia è stata detenuta da capitali privati, il settore pubblico ha incassato più di 2,5 miliardi di euro di contributi sociali e imposte e ha erogato 900 milioni di prestito ponte. Invece nel 2008 ridimensionare Alitalia ed espellere oltre seimila dipendenti, rinunciando ai relativi contributi e imposte, è costato alla casse pubbliche oltre 4 miliardi, come calcolato nel noto studio di Mediobanca. Tale spesa pubblica è stata fatto tuttavia “contro” Alitalia e non, come si legge quotidianamente sulla stampa, “per”Alitalia.
Alitalia è paragonabile a un secchio bucato da cui la liquidità defluisce velocemente e che ha pertanto bisogno di capitali freschi. Nessun soggetto di mercato può essere tuttavia razionalmente disponibile a immettere la sua liquidità sin tanto che non si possa dimostrare che i buchi sono rattoppabili in tempi ragionevoli. Di essi tuttavia solo alcuni sono stati fatti dall’interno dell’azienda e sono dunque rimediabili attraverso la gestione. Invece la gran parte, e tra essi quelli di dimensioni maggiori, sono di origine esterna e solo dall’esterno, da parte del settore pubblico, risultano rimediabili.
Alitalia, una gestione pubblica transitoria è la soluzione migliore
Dall’analisi sin qui svolta emerge la necessità di una fase transitoria nella quale lo Stato si impegni a ridisegnare in maniera razionale le regole e le condizioni di sistema del trasporto aereo. Occorre livellare il campo da gioco per ottenere un’equa competizione tra i vettori in competizione e garantire una sostenibilità di mercato anche per Alitalia. In questa fase, se non si vuole rinunciare al vettore, bisogna anche garantirne la continuità operativa, contenendone le perdite sino al momento in cui sia realizzabile la sua sostenibilità economica e si possa in conseguenza ipotizzare un nuovo ingresso, e con prospettive molto diverse dal passato, di capitali privati. Questa fase della gestione del vettore non può evidentemente essere curata ulteriormente dai commissari straordinari e non può ancora essere curata da soggetti privati, attratti da prospettive di redditività. Pertanto si ravvisa la necessità di una nuova e differente gestione pubblica, avente carattere temporaneo. Come si può realizzare? Il percorso suggerito, che richiede un apposito provvedimento normativo, è il seguente:
1) Si chiude il prestito ponte di 900 milioni, oggetto della procedura d’infrazione della Commissione europea, imponendone la restituzione alla gestione commissariale di Alitalia.
2) Si prevede che in assenza di disponibilità liquide sufficienti il prestito ponte sia restituito in natura al Ministero creditore tramite trasferimento della proprietà dei compendi aziendali in piena operatività di Alitalia.
3) In questo modo si neutralizza la procedura europea di violazione, dato che viene meno l’oggetto della violazione, e si cancellano gli effetti di ogni possibile decisione negativa.
4) Si avvia una gestione pubblica diretta con erogazione, se necessario, di un prestito di salvataggio limitato, conforme alle regole europee, e chiedendo autorizzazione in tal senso alla Commissione Ue. Il prestito precedente, in quanto restituito, diviene prestito zero e non conta più.
5) Si elabora in tre mesi un piano di ristrutturazione e lo si sottopone alla Commissione europea per avere la sua autorizzazione.
6) In base alla medesima si provvede a trasformare il prestito di ristrutturazione in equity, eventualmente integrandolo nell’importo.
7) Si realizza in tal modo una gestione a guida pubblica per 18-24 mesi, usando tale finestra temporale per un riordino completo delle regole e dell’assetto del sistema italiano del trasporto aereo.
8) Alla fine del percorso si riprende la ricerca di investitori privati.