Perché se Lufthansa riceve nove miliardi il tedesco medio non dice nulla, oppure se l’Air France ottiene undici miliardi di aiuti il francese medio non fiata, mentre se l’Alitalia riceve cento milioni l’italiano medio protesta?
Il motivo è molto semplice. Perché l’immagine della compagnia si è deteriorata negli anni a causa di una cattiva pubblicità, parzialmente giustificata da gestioni allegre e spesso tollerata dallo stesso management, che non è stata adeguatamente combattuta. Come se la forza del brand potesse supplire a tutti questi attacchi, più o meno giustificati, fungendo da amuleto contro le negatività che si stavano accumulando in vent’anni. Tuttavia, come tutte le leggende metropolitane a un certo punto il mito di una compagnia inefficiente, l’immagine di un pozzo senza fine dove vengono buttati i miliardi del contribuente, comincia a vivere di vita propria.
Dopo vent’anni è pressoché impossibile tornare a ragionare in termini razionali sull’effettiva fondatezza di tali argomentazioni contro il salvataggio di Alitalia. Eppure un piccolo sforzo bisogna farlo, non tanto per accondiscendenza verso il lettore dei quotidiani, o verso una certa stampa che pigramente funge da ripetitore di fake news, involontariamente riprese e amplificate, quanto verso la classe politica che su questa vicenda dovrà decidere. Se c’è una cosa che non mente, quella è la matematica, la quale, non essendo il regno delle opinioni, ma un sistema assiomatico, ci permette di partire da numeri per arrivare deduttivamente a trovare migliore soluzione sul destino di Alitalia.
La vulgata comune che possiamo leggere sulla stampa è che l’Alitalia è un baraccone inefficiente, gestito (male) dallo Stato, che ha troppo personale, che tra l’altro è pagato troppo. La convinzione del cittadino medio comprende anche altri particolari, come il fatto che i privati gestiscano meglio dello Stato, gli stranieri amministrino meglio degli italiani, nonché, ciliegina sulla torta, che i commissari abbiano risanato la compagnia.
Ebbene, nessuna di queste convinzioni è corretta.
L’Alitalia è privata dal 2009, quando i capitani coraggiosi rilevarono ciò che rimase del fallimento (indotto) della vecchia Alitalia. E possiamo anche aggiungere che i privati fecero molto peggio dello Stato, poiché mentre l’Alitalia pubblica fatturava cinque miliardi e perdeva 350 milioni di euro (7% del fatturato), i privati fatturavano due miliardi e mezzo perdendo 500 milioni (intorno al 20% del fatturato). Nel frattempo, si sono persi per strada undicimila posti di lavoro, si è ridotto il network internazionale per collegare il nostro Paese al resto del mondo, creando le condizioni per un secondo, rapido, fallimento. In cinque anni, si è arrivati a dover vendere il 49% a Etihad per poter sopravvivere.
Il capitolo Etihad ci permette anche di affrontare l’altra convinzione errata sulla migliore capacità di gestire degli stranieri. Se il lettore vuole andare a verificare di persona la magnifica gestione straniera può ricercare su internet che fine hanno fatto le compagnie aeree controllate parzialmente o totalmente da Etihad, vale a dire Air Berlin, Air Serbia, Alitalia, Darwin, Air Seychelles. Se i capitani coraggiosi avevano impiegato cinque anni a fallire, Etihad ne ha impiegati due e mezzo.
Archiviate queste convinzioni, vediamo anche quella riguardante i commissari, che con la loro sagacia hanno risanato la compagnia. Ebbene, dal 2017 a oggi, nonostante la pletora di voci di bilancio fuori controllo, poco o niente è stato fatto per ristrutturare i conti aziendali, anzi sono evaporati tutti i soldi ricevuti in prestito sia dal Governo Gentiloni (900 milioni), sia quelli ricevuti dal Governo Conte (400 milioni). A questi si devono aggiungere anche i ristori ricevuti dal nuovo esecutivo per fronteggiare la pandemia.
Sicuramente non sono dati incoraggianti, né il contribuente può ritenersi soddisfatto di come siano stati gestiti i suoi soldi. Tuttavia, da lì a sostenere che dal 2017 Alitalia abbia bruciato otto miliardi ce ne corre. Non si riesce a capire come mai le cifre messe in circolazione su questa azienda non subiscano un rigoroso fact-checking come sarebbe auspicabile quando si parla di una vertenza importante.
Tutto parte da uno studio di Mediobanca preso come un assioma (infatti non è mai stato sottoposto a verifica), cioè che Alitalia sia costata allo Stato 7,4 miliardi in quarant’anni. Non sono stati pubblicati i presupposti di queste affermazioni, quindi non sappiamo a cosa si riferiscano queste cifre, anche perché nel dibattito pubblico si fa un minestrone di concetti da cui non si riesce a capire molto.
Dal punto di vista economico c’è differenza tra costo, investimento, spesa e spreco. Queste sottigliezze evidentemente non sembrano attecchire sui giornali, altrimenti non si capisce come abbia fatto lo Stato a bruciare otto miliardi dal 2017 a oggi per Alitalia. Ebbene, prendendo una calcolatrice proviamo a vedere se questa cifra è corretta o è un numero appartenente allo zero della logica booleana.
In pratica, alcuni autorevoli studiosi che sulle disgrazie di Alitalia si sono costruiti una carriera, sostengono che gli otto miliardi derivino dal seguente calcolo: tre miliardi sono il buco lasciato da Etihad, due miliardi sono quelli concessi come prestito ai commissari straordinari, tre miliardi sono stati stanziati per ITA.
Ebbene, come si fa a sostenere che sono soldi bruciati dallo Stato? Anzitutto, i tre miliardi di debito accumulati da Etihad sono un rapporto tra privati, nel quale lo Stato non entra se non in minima parte nel garantire, qualora ce ne fosse bisogno, i creditori privilegiati nei loro diritti indisponibili, come ad esempio la liquidazione dei lavoratori.
I due miliardi sono calcolati sommando novecento milioni più quattrocento, più trecento milioni di cassa integrazione, più quattrocento milioni di interessi sul debito. In realtà, gli interessi non sono soldi persi dallo Stato, ma eventualmente un mancato guadagno, di cui nessuno si è mai chiesto la provenienza. Infatti, furono concessi dal ministro Calenda a un tasso del 10% per dimostrare che si stavano accordando quei soldi a tassi di mercato. Non so dove l’ex ministro prenda i soldi in prestito, ma se va in banca egli applicano il 10% di interesse potrebbe rivolgersi all’agenzia contro l’usura. Nessuno in questi quattro anni ha cercato di ricontrattare tale interessi passivi, come farebbe un qualsiasi padre di famiglia quando ha contratto un mutuo con la banca e si accorge che i tassi sono scesi.
Infine, i tre miliardi stanziati per ITA, che teoricamente rappresentano un investimento e non uno spreco; vengono preventivamente dati per persi ancora prima di partire per questa ennesima avventura. Se fossi in Lazzerini, la persona incaricata a ricoprire il ruolo di amministratore delegato di ITA, avrei qualcosa da ridire su questo giudizio tranchant, anche perché se questi soldi si considerano già persi potremmo parlare di una profezia che si auto-avvera.
È doveroso in ultimo menzionare anche la madre di tutte le fake news su Alitalia, cioè che i dipendenti siano troppi e troppo pagati. Anche qui un sereno fact-checking aiuta a capire se ciò che diciamo è fondato o meno. Solitamente, una compagnia aerea è strutturata per avere circa 100 addetti per ogni aereo. Se guardiamo i numeri di Lufthansa o di Air France, o British vediamo che arrivano anche a 120 addetti per aeromobile. In Alitalia siamo sotto quella soglia, arrivando addirittura a 90 per aereo, cioè circa il 25% in meno di Lufthansa. Non solo, ma il guadagno medio per dipendente è inferiore anche del 30% senza contare che nel complesso il costo del lavoro oscilla intorno al 16,8%, contro il 19% medio della concorrenza.
E rispetto alle low cost come si colloca l’Alitalia circa il costo del personale? Se fosse ancora tra noi, a questo punto Mike Bongiorno esordirebbe con un bel: “Colpo di scena, amici ascoltatori!”.
Alcuni studiosi, sempre loro, presentano delle tabelle in cui emerge drammaticamente la differenza tra il numero di addetti impiegati dall’Alitalia rispetto a una famosa low cost. Tuttavia, come dicono gli inglesi, devil is in the details. Infatti, leggendo il bilancio di questa compagnia vediamo che la voce costo del lavoro è molto più bassa di quella dell’Alitalia, ma ciò dipende da un fatto semplicissimo, cioè che parte di questa voce la andiamo a trovare sotto la voce “servizi”.
Infatti, gran parte dei servizi a terra, come il check-in, l’handling, la manutenzione, i trasporti, sono pagati a società che provvedono con il loro personale a erogare il servizio. Anche a bordo di un aereo, non tutto il personale navigante è assunto dalla compagnia aerea, ma alcuni membri di equipaggio sono “affittati” da agenzie interinali che hanno sede in Irlanda. Quindi, non è paragonabile il confronto sul costo del lavoro presente in bilancio a meno che non si voglia effettuare questo scorporo sui dati che abbiamo menzionato per capire quante persone realmente servono per far volare gli aerei.
Un veloce check sul personale navigante, ad esempio, fa emergere come dividendo il numero di persone per il numero di aerei ci indica che quattro persone per aereo non sono sufficienti per partire. Dato che non sono compagnie che volano fuori legge, dobbiamo arguire che il personale debba essere alle dipendenze di altro datore di lavoro.
Dulcis in fundo, il salario accordato alla categoria professionale più pagata in una compagnia: i piloti. Ebbene, anche qui le sorprese non mancano poiché ci troviamo a un 20% in più rispetto ai piloti Alitalia, con garanzie per quello che riguarda assistenza sanitaria e pensionistica sicuramente più vantaggiose per i piloti delle low cost.
Da notizie dell’altro giorno sulla stampa pare che la Commissione europea abbia detto che bisogna tagliare personale, che tra l’altro deve essere assunto con nuovi contratti. In realtà, la Commissaria europea non ha mai detto questo; ha semplicemente annuito alla richiesta degli italiani di strutturare la compagnia con cinquanta aerei, ma di questo abbiamo parlato in un precedente articolo. Chiunque abbia identificato il problema di Alitalia con il personale sia come numero, sia come salari non pare avere un’idea chiara sulla ragione del dissesto della compagnia di bandiera italiana. Di tutti i problemi che si sono manifestati finora, il costo del lavoro è a detta di tutti gli esperti di trasporto aereo, un non-problema.
Al termine di questa breve rassegna di numeri al Lotto, dovremmo concentrarci sulle possibili soluzioni, basate su numeri veri e su analisi razionalmente fondate, su elementi che ci permettono a questo punto di capire, dopo avere analizzato le condizioni di contesto industriale, normativo, commerciale e mediatico, quali possono essere le vie percorribili. Tali soluzioni possono risultare vantaggiose per lo Stato, positive per lo sviluppo futuro dell’azienda e soprattutto in grado di evitare un disastro sociale indotto dal dimensionamento (incongruo) della nuova realtà societaria che erediterebbe una parte del patrimonio di Alitalia, tranne ciò che veramente conta.
Insomma, la strada è in salita, ma come dico ai miei figli: “Se ti piace la strada in discesa, vuol dire che stai andando verso il basso”.
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