Passate le elezioni, grande, appassionante e ricorrente diversivo italiano, torniamo ad occuparci dei grandi problemi del nostro Paese, che sono rimasti lì ad aspettare; tra questi la crisi di Alitalia, una società di cui tutti noi, volenti o nolenti, siamo tornati a essere azionisti, con il conseguente dovere di apportare il “capitale di rischio” e di assumere le decisioni strategiche.
Non crediamo sia necessario ripercorrere le vicende che ci hanno portato fin qui: il Sussidiario le ha seguite puntualmente; forse è solo opportuno ricordare il contenuto del “decreto legge di agosto” (ancora da convertire) quando abbiamo deciso di raddoppiare, portando da dieci a venti milioni, la dotazione di capitale per costituire una nuova società per il trasporto aereo, che dovrebbe poi rilevare dalla gestione commissariale parte delle attività dell’attuale Alitalia. Nello stesso decreto-legge sono chiaramente indicati due passaggi critici di questo percorso.
A) “Il Consiglio di amministrazione della società redige ed approva, entro trenta giorni dalla costituzione della società, un piano industriale di sviluppo e ampliamento dell’offerta, che include strategie strutturali di prodotto”. B) “Il piano è trasmesso alla Commissione europea per le valutazioni di competenza, …” e “l’esercizio dell’attività è subordinato alle valutazioni della Commissione europea”. In parole semplici: la Commissione europea, per garantire una corretta concorrenza nel mercato, impedisce che gli Stati nazionali intervengano a supporto delle imprese, che verrebbero così a trovarsi in posizione di assoluto vantaggio rispetto ai concorrenti. Per questo, è necessario che la nuova società di trasporto aereo dimostri, attraverso il proprio piano industriale, di avere tutte le caratteristiche per competere senza “aiuti” e cioè senza “consumare” il capitale pubblico in essa investito, ma essendo in grado di conservarlo e remunerarlo.
Come questo sia possibile, viste le esperienze precedenti e considerato il drammatico momento che stiamo vivendo, siamo tutti in attesa di leggerlo nel piano industriale che in soli trenta giorni la dirigenza della nuova società (che ancora non c’è) è chiamata a produrre.
Comprendiamo chi, per solidarietà verso le migliaia di dipendenti coinvolti nella vicenda, continua a parlare delle grandi opportunità che si aprono nel settore del trasporto aereo, degli aeromobili che sono venduti a prezzo di saldo (se chi li ha, li svende, perché dovremmo volerli noi?) e dell’importanza del trasporto aereo per il nostro Paese, che vive in buona parte di turismo ed ha migliaia di imprese che esportano in tutto il mondo. Proprio perché queste ultime affermazioni sono vere, sembra opportuno spostare leggermente lo sguardo dagli aerei agli aeroporti: entrambi sono indispensabili per volare, ma mentre gli aeroplani si possono spostare, gli aeroporti no.
Il drammatico crollo della domanda provocato dal Covid-19 non ha messo in ginocchio solo le compagnie aeree, ma in modo ancora più drammatico gli aeroporti, che hanno enormi costi fissi e che, per motivi di sicurezza, non hanno potuto chiudere anche se sono rimasti quasi senza passeggeri. Per dare la misura della situazione: quest’anno, nel mese di agosto (mese di punta per il trasporto aereo), sono transitati negli aeroporti italiani 4,4 milioni di passeggeri in meno dell’anno scorso, con una riduzione del 63% e questo dopo che nei mesi precedenti si sono toccate punte di riduzione del 99,3%! Mentre compagnie estere hanno dimostrato di saper servire la domanda di trasporto nel nostro Paese in modo ottimale (le low cost hanno liberato il Mezzogiorno dalla tassa delle tariffe Alitalia e operatori extracomunitari servono Milano, abbandonata da Alitalia) ben difficilmente capitali esteri verranno a investire, in questo momento, nei nostri aeroporti in perdita.
Ci sono quindi modi migliori per spendere i tre miliardi stanziati dal decreto cura Italia per rilanciare il settore del trasporto aereo, evitando inoltre di presentarci a un esame della Commissione europea su un argomento nel quale sarà difficile ottenere anche un risicato voto di sufficienza.
Un’ultima considerazione: visto che il Decreto-legge prevede che “l’esercizio dell’attività [della nuova società n.d.r.] è subordinato alle valutazioni della Commissione europea”, cosa succede se il giudizio dovesse essere negativo? Sembrerebbe: niente attività… Stiamo forse lasciando alla “matrigna Europa” il compito di fare ciò che non abbiamo il coraggio di fare noi?