Già nel 2008, all’epoca della calata dei “capitani coraggiosi” in Alitalia, i dati sulla situazione finanziaria dell’ex compagnia di bandiera facevano acqua da tutte le parti, ma ad approfondire la questione si scoprivano numeri allucinanti. Nonostante il rapporto del numero dei dipendenti per ogni aereo fosse il più basso in assoluto, ogni 100 euro di guadagni mentre le altre compagnie aeree prese in esame ne spendevano mediamente 23 per la voce “costo lavoro” Alitalia solo 16. Bravissimi, no? Ma poi quando si prendeva visione dei costi organizzativi (ergo quanto si spendeva per far funzionare il vettore) a fronte di una media di 63 euro (sempre calcolando 100 di ricavi) Alitalia ne spendeva 94! Ecco scoperto dove stava il buco, anche perché sommando i 16 di costo lavoro si raggiungeva i 110 euro, quindi in perdita, contro un guadagno medio di 15. Pare incredibile (nulla lo è però in questa tragedia), ma le proprietà che si sono succedute nell’arco della “privatizzazione” l’unico importo che sono riusciti ad abbassare è quello del costo del lavoro, arrivato ormai abbondantemente a livelli low cost.



Le cronache che hanno riempito le pagine dei giornali di questi giorni, frutto delle indagini operate dalla magistratura con dati scoperti da esperti, hanno rivelato somme ingentissime di denaro letteralmente buttate dalla finestra, nella peggiore tradizione che ormai si perpetrava da anni e che ha distrutto letteralmente il valore di un vettore sopratutto attraverso licenziamenti massivi che lo hanno privato del tesoro più grande: quello del know-how sul quale un settore altamente tecnologico come quello aerocommerciale investe cifre pazzesche che poi si rivelano altri soldi buttati quando si cacciano impiegati.



Le cene da 100.000 euro come i caffè a 1.900 dell’epoca Etihad (dove un tale Renzi prometteva che Alitalia sarebbe tornata a volare alto) sono solo la ciliegina su di una torta il cui conto lo hanno pagato le maestranze e gli italiani attraverso i licenziamenti e le tasse.

Ovvio che la soluzione ci sarebbe ed è di una semplicità talmente mostruosa da far quasi ridere: affidare l’aereo a due piloti, ossia mettere ai vertici di Alitalia persone che la conoscano. E chi meglio di Gaetano Intrieri e Ugo Arrigo, che negli anni hanno pubblicato maree di dati sulla situazione di Alitalia possono farlo? Ma qui sorge un problemino che si ricollega direttamente a quanto scritto sopra: i due effettivamente Alitalia la conoscono, ma una volta messi alla cloche potrebbero scoprire una quantità talmente industriale di scheletri nell’armadio da provocare grossi guai proprio al Governo che li metterebbe al comando. È ovvio che questo mio pensiero sia machiavellico, ma non riesco a trovare altra ragione per la quale una soluzione così logica non potrebbe essere messa in pratica. E allora via alle altre opzioni (AirFrance+Delta e Lufthansa) delle quali la seconda, a detta di un esperto, sarebbe scandalosissima anche perché pare proprio che la compagnia tedesca non voglia Alitalia nemmeno in regalo, ma la accetterebbe solo se lo Stato la consegnasse già pronta per diventare la sua ancella nel mercato italiano. Un dato: già la flotta Alitalia è passata sotto i 100 aerei (anni fa ne aveva circa 180) e se continuasse così, a causa del mancato rinnovo degli onerosissimi contratti di leasing (ma senza pensare a come rimpiazzarli) nell’arco di due anni al massimo la situazione sarebbe gravissima.



Intanto l’Ue “vigila” su tutta la manovra Alitalia e già sappiamo come, visto quello che accadde nel 1998 (disparità di trattamento con Iberia e Air France su prestiti statali a interessi di mercato): fu l’inizio dei vari fallimenti sofferti da Alitalia. Ma qui c’è un discorso più profondo da affrontare e riguarda una parola che appare nella nostra Costituzione e viene ora spacciata da certo progressismo radical chic come sinonimo di fascismo o salvinismo: il sovranismo.

Nessuno mette in dubbio che per entrare a far parte di una confederazione di Stati come quella europea si debba cedere una parte della propria sovranità per metterla in comune con quella degli altri Stati, altrimenti che Unione sarebbe? Ma una parte non significa tutta, come pretendono certi personaggi di cui sopra. Essere parte dell’Ue non significa perdere la propria identità, ma partecipare a un progetto con regole ben precise che tutti devono rispettare. Si dà il caso che quando si parla di economia alcuni Stati si sentano in diritto di gridare ai 4 venti di essere parte dell’Unione, ma poi si scopre che, quando la regola della reciprocità li colpisce, saltino fuori curiosi interessi nazionali. È capitato nel contenzioso tra Francia e Italia sulla questione dei cantieri francesi regolarmente acquistati da Fincantieri (fatto che i lettori già conoscono) e capita spesso proprio con la Grande Germania. Anni fa il direttore della filiale Italiana di Lufthansa mi illustrava le difficoltà che aveva nell’acquisire nuove rotte su Malpensa e Linate, reclamando che l’Italia violasse le regole Ue. Quando gli chiesi se erano disposti a uno scambio cedendo slot dalla Germania ad Alitalia, lui mi rispose categorico che gli interessi vitali tedeschi non si toccano! Alla faccia della reciprocità! Ciò conferma che l’europeismo per molti Paesi Ue è la pratica di considerare l’Europa un grande supermercato senza regole, ma si trasforma in sovranismo esasperato quando si toccano i propri interessi.

Proprio la Lufthansa ci offre altri esempi di questa contraddizione. Nel 1990 crolla il muro di Berlino, la Germania occidentale acquisisce da quella orientale la compagnia Interflug: si apre un’asta per la sua vendita (ergo le sue rotte). Lufthansa, per il 51% di proprietà statale, entrò in possesso del 26% di Interflug, rotte e hub compresi. A questo punto entra in azione l’Authority tedesca perché di fatto l’operazione minacciava un monopolio del traffico aereo nazionale. Oltretutto nell’operazione erano interessati anche altri vettori europei, ma il risultato fu che alla fine la società tedesca che doveva gestire la vendita fece muro su Lufthansa, obbligando le altre compagnie a chiedere un arbitrato all’Ue, che fece orecchie da mercanti. Ma l’unificazione monetaria delle due Germanie e il contemporaneo peggioramento, nel frattempo, dei conti Interflug, facilitarono ancor più il giochino di Lufthansa, che si è ripetuto negli anni successivi sia con l’acquisizione di Germanwings ed Eurowings che di Air Berlin, trasformando il traffico aereo tedesco in un monopolio.

Come si vede una doppia morale che si ripete ogni qualvolta ci siano situazioni del genere: eppure da noi, lo ripeto, ancora molti pensano e credono nella favoletta della libertà di mercato nelle regole imposte dall’Ue. Purtroppo persone che spesso hanno grande potere politico e governano i nostri destini oltre al futuro di una nazione, ma anche masse idiotizzate da questi poteri, continuando di questo passo dissolveranno totalmente il nostro Paese a cui non rimarrà una sola industria nazionale, un’Italia senza sistema Paese che già ha fatto scappare diversi giovani verso altri che investono nella cultura e l’innovazione, non nell’harakiri. Alitalia docet: povera Italia!