La crisi di Alitalia non è “un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma”, come potrebbe sostenere qualche appassionato di Winston Churchill. È vero, essa dura ormai quasi da un quarto di secolo, con periodiche fasi acute che la riportano sulle prime pagine dei giornali. E non è mai stata pienamente spiegata né pienamente compresa dato che in questo caso si sarebbero adottate cure adatte a contrastarla anziché scelte in grado di favorirla. Tuttavia la sua origine è talmente evidente che colui che è riuscito a spiegarla nella maniera più semplice e con le parole più chiare ha potuto farlo addirittura nel lontano 1967, con un anticipo di oltre mezzo secolo rispetto alla fase attuale e trent’anni prima che la crisi avesse inizio.



Chi era questa persona e cosa scrisse all’epoca con esattezza? Nicolò Carandini è stato un importante politico liberale del dopoguerra e una figura di grande rilievo per Alitalia, dato che ne fu tra i fondatori e presidente per tutti i primi due decenni di vita dell’azienda. Nel 1967, in occasione del ventennale della fondazione della compagnia, esce un numero speciale della rivista aziendale “Freccia Alata” in cui è tracciato un bilancio di due decenni di successi industriali, caratterizzati da una continua crescita della flotta e dei traffici e da bilanci stabilmente in utile. In quel numero della rivista il Presidente Carandini spiega in poche frasi le ragioni del successo di Alitalia sino a quel momento e anticipa quello che sarebbe avvenuto nei decenni successivi, con la liberalizzazione del trasporto aereo. 



La causa del declino di Alitalia nel più recente assetto del mercato non è altro che il venir meno delle condizioni aziendali che avevano garantito il grande successo dei primi vent’anni. Ma conviene lasciare la parola direttamente a Carandini:

“Il potenziale di mercato disposto a utilizzare le vie dell’aria è stato finora utilizzato solo parzialmente nel campo del trasporto passeggeri ed è stato appena sfiorato nel campo del trasporto merci, che offre dal canto suo immense prospettive. Alta velocità, grandi tonnellaggi e capacità, regolarità operativa, sicurezza e comfort sono gli elementi che, ottenuti con costi decrescenti in crescente ritmo di perfezionamento, incalzano il vettore e concorrono a sollecitare sempre più vasti afflussi di nuovi traffici. Il che dà luogo ed impeto a quella politica di ribassi tariffari da parte delle più potenti compagnie appoggiate ad economie continentali, a quella battaglia dei prezzi nella quale è destinato a soccombere il vettore che non si adatterà sul piano concorrenziale a dare un’adeguata risposta alla dinamica richiesta dal mercato con i necessari rinnovi di flotta e l’adeguato tasso di espansione. Ripeto, questa è un’industria che non vive se non crescendo, in cui chi si arresta non può che retrocedere sotto la pressione di una implacabile concorrenza“. 



Alitalia nei suoi primi vent’anni di vita è cresciuta, riuscendo a tenere il passo del mercato, rinnovando e aumentando la flotta, accrescendo l’offerta con costi e tariffe decrescenti, così da riuscire ad accontentare la crescente domanda e tenere a bada la crescente concorrenza. Quanto tuttavia un quarto di secolo dopo, nei successivi anni ’90, la liberalizzazione voluta dall’Europa ha permesso di dispiegare completamente le potenzialità del mercato, accelerandone enormemente la crescita grazie all’aumento della concorrenza e alla rivoluzione rappresentata dai vettori low cost, Alitalia si è invece fermata. Non riuscendo più a crescere per insufficienti capitali nelle dimensione e qualità della flotta e in conseguenza neppure nelle dimensioni e qualità dell’offerta, ha smesso di tenere il passo della domanda e del mercato e ha anche dismesso la capacità di operare in equilibrio economico con costi e tariffe resi ambedue rapidamente decrescenti dalla pressione competitiva dei vettori low cost. 

Non è in conseguenza riuscita a resistere a “quella politica di ribassi tariffari da parte delle più potenti compagnie“, a quella “battaglia dei prezzi nella quale è destinato a soccombere il vettore che non si è adattato sul piano concorrenziale a dare un’adeguata risposta alla dinamica richiesta dal mercato con i necessari rinnovi di flotta e l’adeguato tasso di espansione“. In un’industria che non vive se non crescendo“, Alitalia dalla metà degli anni ’90 si è arrestata, ha smesso di crescere, ed è in conseguenza retrocessa sotto la pressione di una implacabile concorrenza“. 

Non solo Alitalia negli anni ’90 ha smesso di crescere, in questo modo già segnando il suo destino, ma dall’inizio del nuovo millennio ha scelto ostinatamente di accelerare il suo declino attraverso progressive e insensate riduzioni dimensionali, andando in conseguenza consapevolmente nella direzione opposta a quella che Carandini considerava l’unica in grado di garantire la sopravvivenza. La prima di esse è avvenuta con l’ingresso nell’alleanza internazionale Skyteam e il concomitante drastico taglio dell’offerta intercontinentale, l’unica per la quale si poteva immaginare che i margini di remunerazione non sarebbero stati rapidamente compromessi dalla concorrenza dei low cost. 

La seconda è stata realizzata dai “capitani coraggiosi” in occasione dell’assurda privatizzazione del 2008. Alitalia, la controllata Volare, e AirOne, anch’essa inglobata nella nuova Alitalia privata, avevano complessivamente prima dell’aggregazione oltre 240 aerei. Da allora e sino all’inizio della pandemia il mercato italiano del trasporto aereo è cresciuto del 60%. Per tenere il passo col mercato, seguendo il consiglio di Carandini, la flotta avrebbe dovuto salire da 240 a circa 380 aerei. Cos’è invece avvenuto? I capitani coraggiosi son partiti nel 2009 con neppure 150 aerei mentre i loro successori, gli emiri coraggiosi, sono scesi nel 2015-16, prima dell’insolvenza a circa 120 aerei, meno di un terzo delle dimensioni che il criterio di Carandini avrebbe consigliato. 

Con l’amministrazione straordinaria la flotta si è ulteriormente contratta negli anni più recenti prima di essere messa in gran parte a terra per gli effetti della pandemia. Ora si sta apprestando a entrare in pista la newco ITA per la quale si parla di una flotta di poche decine di aeromobili, chi dice 40 chi 50. Siamo a poco più di un decimo della dimensione che sarebbe stata necessaria per non perdere ulteriore terreno dopo il 2008, dopo tutto il terreno che già allora era stato abbandonato.

Cosa direbbe il presidente fondatore di Alitalia Carandini di fronte a questo progetto, per il quale sono stati stanziati lo scorso anno 3 miliardi di fondi pubblici, non oso immaginarlo. Dopo l’implacabile concorrenza che vi è stata in Europa i vettori che hanno evitato di soccombere sono solo di tre tipi: 1) grandi vettori tradizionali che hanno conservato rilevanti quote di mercato nei rispettivi grandi mercati nazionali; 2) grandi vettori low cost operanti ognuno in una pluralità di Paesi; 3) medio/piccoli vettori tradizionali che hanno tuttavia conservato rilevanti quote nei rispettivi piccoli mercati nazionali (Tap in Portogallo, SAS in Scandinavia, Finnair in Finlandia, Aegean in Grecia). Non vi è alcun caso di piccolo vettore che sia riuscito a sopravvivere in un grande mercato nazionale e le tre gravi crisi di Alitalia in meno di un decennio tra il 2008 e il 2017 ne sono l’esempio più lampante. 

Per un vettore di soli 40 o 50 aerei tremila dipendenti totali sono più che sufficienti (Aegean Airlines ha 2.900 dipendenti con più di 60 aerei in flotta), ma in tale ipotesi avremmo l’assurdo caso di un costo pubblico di 3 miliardi a fronte di 3 mila dipendenti di cui verrebbe salvato il posto di lavoro. Se dividiamo le due cifre otteniamo un esborso pubblico di un milione per ogni posto di lavoro, un valore che sarebbe in grado di convertire lo stesso Keynes al liberismo più radicale, completamente ostile a ogni forma di intervento pubblico in economia.

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