Alitalia. Lo scorso anno il traffico internazionale passeggeri negli aeroporti italiani è cresciuto del 7,2%, un tasso persino superiore a quello del Pil cinese, aumentato solo del 6,6%. E nell’ultimo quinquennio sia il mercato italiano del trasporto aereo che il Pil cinese sono entrambi cresciuti del 39%. Com’è dunque possibile che in un settore in così rapida crescita quello che è il suo principale operatore, per capacità offerta e per fatturato sul mercato nazionale, sia in grave crisi, gestito da una terna di commissari straordinari, e persino a rischio di cessazione delle attività e liquidazione?



Lo stato prefallimentare di Alitalia dovrebbe essere altrettanto improbabile che quello di un’ipotetica grande impresa manifatturiera cinese. Invece non è così e la crisi, ormai di lungo periodo, del vettore nazionale persiste inspiegata, tanto che un anno fa iniziai il mio intervento a un convegno sindacale della Cub sostenendo che si trattava di “…un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma”. L’efficace frase, presa a prestito da Winston Churchill, conserva tutta la sua attualità e rende difficile individuare una terapia efficace per il rilancio di Alitalia non avendo sinora definito un’accurata diagnosi.



Diverse interpretazioni si sono susseguite nel tempo: dieci anni fa andava di moda l’idea che fosse tutta colpa della gestione pubblica e si confidava, con rare eccezioni tra cui chi scrive, che i capitani coraggiosi avrebbero posto rimedio. In fondo mettevano a rischio i loro soldi anziché quelli dei contribuenti e avevano tutti gli incentivi per una corretta gestione. Quando nel volgere di pochi anni dimostrarono invece di essere in grado di perdere ancora più soldi dello Stato imprenditore emerse una nuova interpretazione: nessuno di loro aveva esperienza nello specifico e particolare mercato del trasporto aereo, pertanto la soluzione corretta sarebbe stata sicuramente quella di affidare la gestione a un grande vettore internazionale in rapida ascesa, la mediorientale Etihad. Peccato che in solo biennio il nuovo gestore sia riuscito a dimostrare di essere in grado di perdere più soldi sia del gestore pubblico che di quello privato che lo aveva preceduto.



A inizio maggio del 2017, dopo aver cercato inutilmente di convincere i lavoratori a farsi carico di un nuovo risanamento del bilancio con ennesimi tagli salariali e occupazionali, gli emiri coraggiosi consegnavano finalmente le chiavi aziendali al governo di allora, il quale aveva di fronte a sé due opzioni, regolate dalla legge sulla gestione straordinaria delle crisi d’impresa: indirizzare la nuova gestione commissariale a una rapida cessione dell’azienda, dotandola delle limitate risorse finanziare necessarie, come sarebbe di lì a poco accaduto in Germania con Air Berlin; in alternativa indirizzare le gestione commissariale a un processo più lungo di ristrutturazione aziendale, preliminare a una cessione solo successiva.

In realtà il governo di allora, e in particolare il ministero dello Sviluppo economico guidato da Carlo Calenda, scelse il mix peggiore delle due: concedere un prestito ponte generosissimo, 600 milioni di euro destinati a salire a 900 solo sei mesi dopo, ma senza il compito di ristrutturare, come l’ammontare del prestito avrebbe permesso, ma solo quello di vendere. Il risultato è che, non essendo vincolata da uno stringente vincolo di bilancio, in due anni la gestione commissariale ha consumato una quota consistente del prestito senza vendere, né ristrutturare.

È vero che oggi, apparentemente, permangono in cassa circa due terzi del prestito originario, tuttavia esso è alimentato dall’incasso anticipato delle vendite dei biglietti futuri e la giacenza dichiarata ha lo stesso ordine di grandezza di due mesi di costi gestionali di Alitalia, gli ultimi dei quali è lecito presumere che non siano stati ancora versati. In sostanza se oggi venissero pagate tutte le fatture dei servizi già prestati è lecito dubitare che la gestione commissariale sarebbe in grado di trasferire a un nuovo ipotetico gestore subentrante il controvalore dei viaggi che egli dovrà organizzare per trasportare chi ha già prenotato e pagato il viaggio.

Giunti ormai alla data di scadenza fissata per la cessione del vettore è utile fare il punto su quel poco che sappiamo di certo su Alitalia. Direi essenzialmente quattro cose. La prima è che, da un punto di vista economico-finanziario, Alitalia è paragonabile a un secchio bucato: ha urgente bisogno di risorse fresche, ma nessuno sembra aver fretta di apportarle sapendo che si disperderanno rapidamente attraverso i buchi. Bisognerebbe prima chiuderli, al fine di invogliare i fornitori di liquido. La seconda è che, nella sua settantennale esistenza, la miglior gestione di Alitalia è stata quella pubblica a carico dell’Iri e la peggiore quella privata di Etihad. La terza è che chiudere Alitalia sarebbe molto più costoso che rilanciarla. La quarta è che Alitalia è ancora indispensabile, almeno in alcuni segmenti, al mercato italiano del trasporto aereo. A esse si aggiunge non un’ulteriore certezza, bensì un dubbio, un’ipotesi intellettuale che dovrà essere oggetto di approfondimento: Alitalia è indispensabile al mercato italiano, ma potrebbe anche risultare impossibile nel medesimo.

Sulla prima certezza non vi è esigenza di particolare approfondimento, essendo dimostrata dalle perdite di Alitalia, sicuramente superiori ai 500 milioni anche nel 2018. Riguardo alla seconda è utile una breve storia delle perdite di Alitalia. Lo Stato ha fondato Alitalia nel 1947 per assicurare principalmente i collegamenti di lungo raggio del Paese e l’ha gestita benissimo per il primo quarto di secolo e in maniera accettabile per il ventennio successivo. Nessun imprenditore privato avrebbe rischiato i suoi soldi per fondare e gestire la compagnia. Nel primo quarto di secolo di storia di Alitalia, dal 1947 al 1973, lo Stato aviatore ha realizzato utili al lordo delle imposte societarie per 1,2 miliardi di euro ai prezzi attuali mentre nel successivo periodo 1974-2007 ha perso complessivamente, secondo i calcoli del noto studio di Mediobanca, 3,3 miliardi, di cui tuttavia 1,6 miliardi nei sette anni finali a gestione diretta del Tesoro.

Durante tutto il periodo Iri, i 54 esercizi che vanno dal 1947 al 2000, la perdita pubblica complessiva è stata di 560 milioni, in media 10 milioni all’anno mentre nei successivi sette anni a gestione diretta del Tesoro la perdita per le casse pubbliche è salita a una media annua di 220 milioni. In seguito il fallimentare salvataggio del 2008 ha dato l’avvio a una gestione totalmente privata che, negli otto anni e quattro mesi intercorsi sino al commissariamento, è riuscita a perdere, tra capitani ed emiri coraggiosi, oltre 3,2 miliardi, quasi 400 milioni in media per anno. Ma lo stesso salvataggio del 2008 ha generato ulteriori oneri per le casse pubbliche, sempre secondo i calcoli di Mediobanca, per oltre 4 miliardi, di cui metà per la cassa integrazione dei seimila dipendenti espulsi.

Questi oneri non sono stati tuttavia sostenuti per salvare, tenere aperta e gestire Alitalia, bensì per chiuderne metà e far spazio nella parte soppressa all’acquisizione, ai tempi considerata salvataggio, di AirOne. Non è pertanto corretti sommarli ai 2,1 miliardi complessivamente persi dallo Stato nei 60 anni in cui l’Alitalia pubblica ha fatto volare centinaia di milioni di persone, dato occupazione, pagato salari netti, imposte e contributi sociali a decine di migliaia di dipendenti. Essi sono stati persi per Alitalia, gli altri 4 miliardi contro Alitalia.

La terza certezza è che la chiusura dell’azienda, la sua messa in liquidazione, rappresenterebbe una soluzione molto costosa per le casse pubbliche e il contribuente, richiedendo di proteggere con provvedimenti di welfare 12 mila dipendenti, il doppio dei 6 mila che furono espulsi nel 2008 al non modico costo pubblico di due miliardi. Anche se ipotizziamo che lo Stato possa essere meno generoso del 2008 e non intenda spendere il doppio di due miliardi, cioè quattro miliardi, è ragionevole stimare che la chiusura di Alitalia finirebbe col costare alle casse pubbliche almeno tre miliardi, un multiplo delle cifre sinora circolate come ipotesi di ricapitalizzazione. Meglio spendere un miliardo ancora per investire in Alitalia oppure tre per chiuderla?

La quarta certezza è che non è vero che Alitalia non sia più necessaria, rappresentando ormai solo una quota molto piccola dell’intero mercato italiano, e che i numerosi vettori in esso presenti siano perfettamente in grado di portare gli stranieri in Italia e gli italiani ovunque essi vogliano. In realtà il mercato si compone di diversi segmenti: i voli domestici, i voli internazionali infraeuropei, quelli di medio raggio verso il Nordafrica e il Medio Oriente e, infine, quelli di lungo raggio verso tutte le altre aree del globo. Nel primo segmento, quello nazionale, hanno volato nel 2018, in base ai dati da poco pubblicati dall’Enac, 32 milioni di passeggeri, di cui 12 con Alitalia. Se gli aerei di Alitalia dovessero restare a terra i quattro passeggeri su dieci del vettore nazionale non potrebbero facilmente aggregarsi agli altri sei che usano gli altri vettori. Non troverebbero infatti posto a bordo e, in ogni caso, non allo stesso prezzo. Solo dopo un tempo non breve l’offerta degli altri riuscirebbe a compensare la scomparsa di quella di Alitalia. Mentre nei voli infraeuropei lo stesso problema non sembra porsi, dato che solo circa 6 dei 100 milioni di passeggeri totali hanno volato con Alitalia, un ulteriore segmento problematico è quello del lungo raggio. In esso, e propria a causa della debolezza di Alitalia, già ora due terzi dei viaggiatori totali che arrivano o partono dall’Italia utilizzano altri hub europei e non sembra nell’interesse nazionale regalare loro anche una fetta rilevante dell’ultimo terzo.

Qui finiscono le certezze e iniziano i dubbi, di cui per il momento accenno solo al più rilevante. Siamo sicuri che Alitalia oltre a essere necessaria al sistema italiano sia anche sostenibile nel medesimo, dato il modo in cui è organizzato e regolato? Esso infatti appare costruito su misura dei vettori low cost, i quali hanno certo contributo al suo grande sviluppo, ma potrebbero averlo reso inospitale per un vettore nazionale di tipo tradizionale. Ormai pervenuti a una quota superiore alla metà dell’intero mercato essi hanno il vantaggio di utilizzare aeroporti minori e con basse tariffe anche all’interno dei due maggiori sistemi aeroportuali nazionali, oltre a godere di contributi non sempre trasparenti in diversi di essi. Rappresentano inoltre un quarto del traffico dell’aeroporto hub di Alitalia, quello di Fiumicino, e oltre un terzo nell’intero sistema aeroportuale di Roma. Sono dunque un concorrente diretto e robusto nella casa stessa del vettore nazionale.

Non è così per altri grandi vettori continentali, i quali non hanno concorrenti diretti low cost nei loro hub; ad esempio, nello scorso anno solo il 2% del traffico di Francoforte è stato low cost, l’8% di quello di Monaco, non oltre il 10% di Parigi Charles De Gaulle. Inoltre in Francia il traffico low cost non supera un terzo del mercato mentre in Germania dopo il fallimento di Air Berlin è sceso a un quarto, di cui circa metà coperta dal vettore Eurowings, appartenente alla stessa Lufthansa. Gli altri grandi vettori europei hanno importanti armi difensive verso i low cost che Alitalia non ha: i) posseggono essi stessi vettori low cost; ii) hanno un’offerta robusta sul lungo raggio ove i low cost sono poco o per nulla presenti; iii) non hanno una concorrenza diretta nei loro hub; iv) la quota di mercato dei low cost non posseduti è complessivamente contenuta; v) possono contare in conseguenza su proventi medi per passeggero km più elevati.

Rispetto a questo contesto vi è una sola eccezione rilevante tra i maggiori paesi oltre all’Italia ed è la Spagna, ma la Spagna può contare su un gestore aeroportuale nazionale unico, a controllo pubblico, il quale applica tariffe contenute ai vettori aerei. Il contrario accade in Italia, con gli aeroporti maggiori che applicano le tariffe più elevate. Può darsi dunque che non siano possibili contemporaneamente le tre condizioni seguenti, ma che una sia di troppo:

1) Elevata quota di mercato dei vettori low cost, con conseguente erosione dei proventi medi per effetto della loro concorrenza.

2) Elevate tariffe aeroportuali, con particolare riferimento all’hub del vettore nazionale.

3) Sostenibilità economica del vettore nazionale.

In Francia e Germania manca la prima e le altre due sono compatibili, in Spagna manca la seconda e le altre due sono compatibili. In Italia, almeno per ora, manca la terza. È dunque possibile, allo stato attuale delle cose, che Alitalia sia impossibile in Italia?