Negli anni Sessanta un politico democristiano, in un accorato discorso, ebbe a pronunciare quello che in quei tempi era uno strafalcione che fece epoca: “Abbiamo raggiunto il vertice della bassezza”, dichiarò. Non sono riportate reazioni della Camera dei deputati, ma se la stessa frase fosse pronunciata oggi, sicuramente non provocherebbe nessuna ilarità, perché pensando solo alla tristissima faccenda Alitalia si potrebbe tranquillamente rispondere che, come tutto lascia prevedere, il tanto sbeffeggiato vertice in effetti non sia stato ancora raggiunto.



Ma qui stiamo entrando, lo abbiamo già anticipato in un altro articolo, oltre il confine della metafisica, per arrivare in quello di un Paese ormai allo sfascio. Non solo istituzionale, ma pure industriale e finanziario, sindacale e anche, ci spiace dirlo, umano. Perché ormai il mondo ce lo dimostra chiaramente: la rottura tra una politica che ormai, anche nella sua ala progressista o se preferite fucsia oppure radical chic che dir si voglia, è ormai ancorata alla finanza e non permette in molti casi la partecipazione popolare anche indiretta, e la gente ha raggiunto il limite di rottura, perché in molte parti del mondo l’essere umano inizia a ritrovare quel senso della partecipazione che sembrava aver perduto da anni, nella riconquista dei propri diritti.



Da noi qualcosa si sta muovendo non solo a livello politico (esempio il movimento definito delle sardine), ma anche di lavoratori di imprese a rischio di sparizione (Whirlpool, Ilva): stranamente però quelli Alitalia nutrono ancora una speranza. Non si sa di cosa, visto che dal 1998 ne hanno viste letteralmente di tutti i colori e purtroppo le ultime notizie sono ancora basate sull’ennesimo rifinanziamento dello Stato senza alcuna logica, se non quella temporale, visto che i vari soci dell’eventuale cordata arrivano, rimangono un po’ poi fingono di scappare, quindi ritornano per poi ritirarsi, impedendo di fatto una soluzione vitale per le sorti della compagnia.



La settimana scorsa si parlava di un piano B, basato sulla logica concezione di una Alitalia pulita di tutte le storture finanziarie che deve soffrire per poter poi riprendere quel cammino positivo che manca dal fatidico 1998. Si basava su 8 punti dettati dall’economista Ugo Arrigo e tuttora rappresenta l’unica soluzione possibile per salvare Alitalia o per lo meno quella in grado di farla ridiventare quell’entità appetibile dai mercati che il suo funzionamento da circa due anni sembrerebbe dimostrare, non solo connesso ai record di puntualità, ma anche dall’aumento dei ricavi, puntualmente azzerato dalle già citate storture che la compagnia deve subire a base di tariffe di servizi e leasing fuori mercato che è costretta a pagare.

A parte la situazione di eterno surplace propositivo in cui versa, sta ricominciando in maniera sempre più incessante il coro mediatico a base di calcoli di quanto, nell’arco di svariati anni, tutta la questione Alitalia sia costata allo Stato, e quindi, agli italiani. Cifre ovviamente impressionanti, ma che non giustificano quella voglia di tirar tutto nel cesso o liquidando una compagnia che “non serve all’Italia”, visto che controlla solo il 33% del traffico aereo, oppure svendendola, anzi regalandola, a una Lufthansa che, già in crisi di suo, forse non l’accetterebbe nemmeno come dono, almeno fino a quando, saltando fuori una compagnia sua avversaria nel mercato aereo mondiale, sarebbe costretta “a malincuore” a beccarsela.

D’altronde, come scrivevo in un’altra nota, una compagnia aerea altro non è che lo specchio del Paese a cui appartiene: e l’intera vicenda Alitalia, purtroppo, lo è. Povera Italia.