I commissari che stanno gestendo Alitalia nei prossimi giorni formalizzeranno il fallimento della prospettiva di costruire una nuova cordata imprenditoriale disposta a rilevare la compagnia aerea. Come abbiamo già  avuto modo di sottolineare in tempi non sospetti, si trattava di un’ipotesi strampalata. Fondata su una  partecipazione pubblica maggioritaria al capitale della nuova società con il concorso prevalente delle Ferrovie dello Stato, un’azienda concorrente per la tratta Roma-Milano, della Atlantia dei Benetton disponibile a mettere soldi a condizione di averli precedentemente  garantiti con il prosieguo delle concessioni autostradali, e della Delta interessata a portare nel suo alveo le quote di mercato lasciando buona parte dei rischi dell’operazione in capo allo Stato italiano.



Ma l’ennesimo fallimento della gestione delle vicende Alitalia, che hanno comportato sinora circa 10 miliardi di euro a carico dei contribuenti italiani e una riduzione di  oltre il 50% delle quote di mercato e dell’occupazione, è il frutto di una narrazione sbagliata sui destini della compagnia, che ha visto un concorso di protagonisti: le istituzioni, le organizzazioni sindacali e le forze politiche,  che si sono alternati nella gestione dei tentativi di privatizzare la società, e nelle riprese in carico dello Stato con gestioni commissariali.



La narrazione sbagliata era, e lo è tuttora, basata su due presupposti infondati. Il primo sull’identificazione tra l’interesse nazionale con con il capitale detenuto dallo Stato o da imprenditori italiani. Tale impostazione ha comportato il fallimento della fusione alla pari con la Klm nell’anno 2000, finalizzata alla costituzione della compagnia di trasporto aereo più importante in Europa e alla bocciatura dell’integrazione con Air France, a condizioni meno favorevoli ma con l’assorbimento dei debiti e della gran parte degli occupati, nel 2008. Il fallimento delle operazioni citate, ne ha comportato un secondo: la fine di ogni realistica possibilità di recuperare quote di mercato internazionale e nazionale per la compagnia di bandiera. Obiettivo che rimane tuttora al centro delle affermazioni dei nostri governanti, ma che per essere perseguito richiederebbe strategie e investimenti che solo grandi compagnie internazionali si possono permettere.



Il divario tra le affermazioni roboanti, che servono solo a fornire alibi per le periodiche iniezioni di capitale, e la concreta realtà di un’azienda impossibilitata a diventare un competitore internazionale e costretta a fare i conti con compagnie low cost che ne erodono il mercato interno (nel frattempo Ryanair ha triplicato le quote di mercato rispetto alla compagnia di bandiera), ha fatto precipitare Alitalia in un limbo.

L’unico interesse possibile da parte di potenziali investitori, tra l’altro spaventati dalle conseguenze di dover gestire il potenziale dimezzamento degli attuali occupati, circa 5.000 lavoratori, può  essere rivolto all’assorbimento delle quote di mercato residue e dalla buona reputazione sui servizi ai passeggeri che il marchio continua a mantenere. A condizione che lo Stato si faccia carico dell’indebitamento, per una cifra almeno equivalente ai 900 milioni di prestito già  erogato e di ulteriori 400 che si accinge a erogare alla gestione commissariale, e ai connessi oneri per il sostegno al reddito dei lavoratori in esubero.

In buona sostanza lo Stato “imprenditore” si trova di fronte a due alternative: la necessità di farsi carico di una ristrutturazione onerosa in vista di una futura cessione verso un grande vettore internazionale, ovvero perseguire il medesimo obiettivo con una nuova gara internazionale destinata a scontare sul valore di cessione gli oneri citati in precedenza.

La prima ipotesi credo sia difficilmente praticabile, perché comporta un problema con l’Unione europea, legato agli aiuti di Stato che ne deriverebbero, e una più  complicata gestione sociale  degli esuberi. Quest’ultima potrebbe essere persino insufficiente se replicata nel caso di assorbimento e riorganizzazione del personale da parte dell’eventuale acquirente.

Si parla anche di vendita frazionata dell’attuale società su tre segmenti: le attività  di volo e trasporto, i servizi a terra e la manutenzione dei velivoli. Un’ipotesi che viene ventilata da tempo e  comporterebbe costi occupazionali per gli 11.500 dipendenti difficilmente gestibili. La riproposizione della partecipazione al capitale da parte di altre aziende pubbliche non rappresenta una soluzione per i problemi aperti e comporterebbe il rischio di deteriorare la redditività delle stesse.

Rimane pertanto un’unica via, trovare un grande vettore internazionale, che sia Lufthansa o un altro comparabile, certamente onerosa nel breve periodo, ma, a quanto sembra, priva di alternative. Comunque sia: fine della narrazione, per lo Stato imprenditore non ci sono prospettive.