Caro direttore,
quando i cinema riapriranno, sarà possibile vedere in almeno qualche sala il pluripremiato film-documentario Alla mia piccola Sama, la cui visione, benché opportuna solo per un pubblico maturo e adulto, è consigliabile per chi voglia capire cosa sia avvenuto in Siria dal 2011 ad oggi o per chi intenda farsi prossimo, tra i mille modi che pur vi sono, alla storia di uomini, donne e bambini del nostro tempo, la cui vita è stata, e tuttora è, sconvolta dalla guerra.
Il documentario è co-diretto e interamente prodotto da Waad Al-Kateab (pseudonimo), una donna siriana non ancora trentenne; narra le vicende della vita di Waad ad Aleppo in un lasso di tempo di circa cinque anni: dal 2012 – anno in cui, contestualmente ai moti della “Primavera araba” cominciati l’anno precedente, si diffuse la protesta di piazza contro la corruzione e l’oppressione del governo di Assad – fino al 2016, anno in cui Waad, insieme al marito Hamza e alla figlia Sama, lasciò Aleppo poco prima che la medesima città, dopo oltre quattro anni di assedio, venisse interamente riconquistata dalle forze del regime, appoggiato dalla Russia e dall’Iran, a danno dei cosiddetti (dal regime) ribelli.
Nella primavera del 2012 Waad è una studentessa al quarto anno di economia; Hamza è da poco divenuto medico. Dopo aver aderito alla protesta pacifica anti-Assad, che trova fra i più convinti sostenitori gli studenti universitari, Waad incontra Hamza, il quale fin dall’inizio della protesta si è prodigato a curare coloro che erano rimasti feriti dalle cariche della polizia del regime. Da quel momento in avanti, lungo il corso della guerra civile, Waad e Hamza si ritrovano a collaborare insieme nelle retrovie del fronte ribelle.
Hamza, insieme a un amico medico e a un manipolo di amici, tra cui infermieri e ostetriche, decide di trasferirsi dalla zona ovest alla zona est di Aleppo, perché sapeva che, ivi trovandosi l’opposizione al governo di Assad, avrebbe potuto portare il necessario soccorso medico. Questo gruppetto di persone, a cui si unisce anche Waad, rimette a regime sotto la direzione di Hamza un plesso ospedaliero caduto in disuso, trasformandolo in un centro pediatrico, cardiologico e oncologico che nel corso degli anni di assedio ad Aleppo arriverà a contare 110 membri di personale sanitario e, negli ultimi mesi del 2016, risulterà l’ultimo ospedale di Aleppo a offrire assistenza medica ai malati.
Intervistata dalla reporter americana Amy Goodman per il popolare programma radiotelevisivo Democracy Now, Waad spiega che, in un primo momento, la sua iniziativa di filmare la rivolta pacifica contro il regime di Assad nasceva dal desiderio di documentare un fermento sociale che, sebbene allora censurato dalla propaganda del regime, agli occhi suoi e dei suoi compagni attivisti appariva segnare un momento storico eccezionale per il suo Paese: l’inizio di una nuova era di libertà, di parola e di voto.
In un’altra intervista, a Krishnan Guru-Murthy per la serie podcast Ways to Change the World dell’emittente britannica Channel 4, Waad afferma invece che, in un momento successivo, quello che pressappoco viene a coincidere con la sua residenza in ospedale, le sue riprese volevano semplicemente catturare, in un certo senso trattenere (magari solo per chi le sarebbe sopravvissuta), l’inestimabile valore dell’essere viva in quel momento (“in that moment”), valore che lei, paradossalmente, andava riscoprendo sotto l’urto di un’incombente minaccia di morte. Waad rivela dunque che intendeva non tanto girare un film, quanto documentare, fin quando le fosse stato possibile, squarci della quotidianità sua, della sua famiglia e dei suoi amici.
Il materiale filmico selezionato per il film-documentario, seppur accennando alla fase della protesta del 2012, si concentra sul periodo in cui Waad e Hamza fanno dell’ospedale la loro “casa”: non solo perché vi nasce la figlia Sama, ma anche perché in esso si sposano e stabiliscono, di fatto, la loro dimora. Questa decisione è il sintomo del sostegno a una causa, quella della libertà e della giustizia del loro Paese, che Hamza e Waad decidono di perseguire senza condizioni: a costo di veder ridotto in macerie sotto i bombardamenti il centro ospedaliero che, successivamente, riallestiscono presso un altro edificio; a prezzo di esporsi costantemente alla realtà e al rischio della morte; senza contare la contraddizione (o il paradosso?) di rimanere in ospedale con la figlia neonata e, addirittura, di tornarvi con essa in un momento critico degli scontri tra il regime e i ribelli, dopo un breve periodo di visita in Turchia ai familiari di Hamza nel luglio del 2016.
Al contempo, il documentario mostra in presa diretta i crimini di guerra dell’esercito russo-siriano ad Aleppo che, in spregio al diritto umanitario internazionale, ha bombardato in modo sistematico i luoghi di aggregazione civile: scuole, panetterie, ospedali e punti di aiuto umanitario. Nell’intervista a Channel4, Hamza spiega che ad Aleppo est era stato coniato un modo di dire secondo cui il posto più sicuro della città fosse la prima linea del fronte: perché il regime, insieme con l’alleato russo, era interessato a bersagliare i civili inermi piuttosto che i ribelli armati (evidentemente in certi frangenti della guerra più utili da vivi che da morti al governo Assad) o i jihadisti (magari, com’è successo, messi in libertà dallo stesso regime allo scopo di arrogarsi il diritto di usare la forza).
A lasciare attoniti, oggi, è che la storia di Waad e di Hamza si rinnova nella storia di milioni di civili non solo (ancora) ad Aleppo, ma anche (soprattutto) a Idlib, città collocata nell’area nord-occidentale della Siria, ultima roccaforte della resistenza anti-Assad cui è alleata la Turchia.
Come racconta in modo puntuale e accorato l’inviato di Radio Radicale, Mariano Giustino, curatore della “Rassegna stampa turca”, Idlib è teatro di una delle crisi umanitarie attualmente più gravi al mondo: nel corso di un conflitto inaspritosi ormai da dieci mesi, i bombardamenti siro-russi hanno sistematicamente preso di mira la popolazione inerme e hanno causato la morte di 1.500 civili, il ferimento di altri 5mila e lo sfollamento di una moltitudine di persone (1.335.000) ora ammassate al confine con la Turchia, molte delle quali sono non al primo sgombero, ma al secondo o al terzo, chi addirittura al quarto: come spiega Giustino, lo sfollamento di massa è un obiettivo cardine della strategia militare di Putin e Assad – fattore di destabilizzazione dello schieramento nemico, culla di estremismi facilmente strumentalizzabili, strumento di pressione politica contro l’antagonista (turco in questo caso) eccetera. Vi sono famiglie di Idlib sfollate sul confine turco che sono giunte a pagare 50 dollari mensili di affitto per ripararsi sotto un albero di olivo, al punto che, nel corso della cruda ondata di gelo di qualche settimana fa, alcuni bambini sono morti per assideramento.
“Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via, niente paura” (I promessi sposi, cap. XI): con questi pensieri si va rassicurando il potente di turno sulla legittimità della sua dispotica, violenta azione oppure della sua soddisfatta, asettica inazione; forse son proprio questi, del Don Rodrigo manzoniano, i pensieri (dispotici) di un Erdogan, di un Assad, di un Putin, oppure i pensieri (asettici) di una Von der Leyen, vale a dire di noi europei, quando pensano (quando pensiamo) al popolo siriano.
Oggi, tuttavia, è venuta meno la premessa, formulata dalla domanda retorica “Chi sa che ci siano?”, su cui si reggeva il rassicurante pensiero del potente d’un tempo che fu: è venuta meno tale premessa perché oggi tutti sanno che il popolo siriano c’è e tutti hanno, magari grazie ai social media, una qualche seppur vaga nozione degli atroci soprusi cui deve soggiacere; tutti noi sappiamo e, dunque, ancor più mostruosa nella sua risaputa ovvietà, appare la crisi umanitaria che si sta consumando oggi in Siria, la più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale.
L’Onu, il cui Consiglio di sicurezza è ostaggio, come in Libia, del diritto di veto russo, osserva spettatore la spregiudicata politica di Putin che, come sottolinea Lorenzo Trombetta nel suo articolo sul numero di gennaio di Limes (La Siria che non c’è), ha bloccato con l’aiuto della Cina la risoluzione che prevedeva da anni l’ingresso di aiuti umanitari da valichi frontalieri non controllati dal governo di Damasco sul fronte curdo e su quello iracheno: per mettere in difficoltà i curdi e, quindi, esercitare pressione sugli Stati Uniti (il cui obiettivo nell’area resta, tuttavia, il contenimento iraniano). L’ingresso di aiuti umanitari è stato dunque affidato dall’Onu alla Turchia, benché la presenza militare di quest’ultima sul territorio siriano stia evidentemente contribuendo a rinfocolare, non certo a spegnere, lo scontro nell’area.
Dal canto loro, dopo nove anni di conflitto, i civili siriani sanno ormai che non è realistico confidare in un’iniziativa risolutiva in loro favore ad opera delle Nazioni Unite.
Lo sanno bene Waad e Hamza che, ora residenti in Inghilterra dopo lo sgombero obbligato da Aleppo, sono preoccupati non tanto di smuovere le istituzioni internazionali, ma di far conoscere la loro storia, la storia di un popolo martoriato dalla violenza degli uni e dall’indifferenza degli altri. Con umile dignità e ferma pacatezza Hamza e Waad ripetono che oggi in Siria è necessario non tanto stabilire chi sia dalla parte del bene o del male (chi può dirsi scevro di colpe tra gli attori del conflitto?), quanto soccorrere il popolo siriano, vera vittima della guerra: aiutare, non strumentalizzare i milioni di sfollati; proteggere, non distruggere la vita innocente; condividere, non tralasciare (per indifferenza, per paura) la loro storia.
Perché ci chiedono tale conversione (una vera e propria metànoia)? Forse per ciò che Waad riscopre quando, come ci mostra il documentario, l’occhio della sua telecamera riprende un bimbo che viene partorito da una donna ferita a seguito di un bombardamento: quel bambino che sembra morto, improvvisamente, rispondendo alle manovre di rianimazione del personale medico apre gli occhi e comincia a piangere. Racconta Waad, nell’intervista a Channel4, che tutto l’ospedale si radunò intorno al neonato sopravvissuto, per assistere a quella inaspettata vittoria della vita sulla morte: quel bambino, intuisce Waad, guardandolo, “è più potente del regime, delle armi, di ogni cosa” (“This baby is really more powerful than all the regime, all weapons, all of everything”).