Ieri Banca d’Italia ha diffuso le “proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana”. Lo scenario di base indica un calo del Pil del 9,2% per il 2020 con una graduale “ripresa” del 4,8% nel 2021 e poi del 2,5% nel 2022. Significa che recupereremo il Pil perso nel 2020 non prima del 2023 e più probabilmente nel 2024. In questo scenario le ore lavorate scenderebbero di circa il 10% del 2020; vuol dire un impatto sul “privato” molto superiore. Sarebbero numeri drammatici che diventano peggiori in un secondo scenario, più severo, in cui si incorpora un protrarsi dell’epidemia o l’esplosione di nuovi focolai. In questo secondo scenario il calo del Pil arriverebbe al 13,1% nel 2020 con una “ripresa” più lenta nel 2021, +3,5%, e nel 2022, +2,7%. Questo secondo scenario sembra molto più simile alle proiezioni delle principali banche d’affari e dei maggiori istituti di ricerca internazionali.
Da notare che “neanche in questo scenario, peraltro, si considerano eventuali effetti, non lineari e difficilmente quantificabili, che potrebbero derivare da episodi diffusi di insolvenza tra le imprese che incidano in misura marcata sulla capacità produttiva dell’economia, o da nuove ondate epidemiche globali.” Questo purtroppo è lo scenario che si sta producendo nel nostro Paese in questi giorni. Una crisi di liquidità impressionante che minaccia l’esistenza stessa e la continuità aziendale di moltissime imprese e attività commerciali.
Banca d’Italia calcola che i decreti legge “Cura italia” e “Rilancio” contribuirebbero a mitigare la contrazione del Pil per un importo pari a due punti percentuali. Siamo lontani anni luce non solo dagli interventi messi in atto negli altri Stati d’Europa, ma soprattutto dalle cifre dichiarate in conferenza stampa nelle ultime settimane e che pure hanno campeggiato per giorni sui principali organi di informazione senza che nessuno si preoccupasse di fare qualche conto. Diversi economisti hanno stimato che l’economia italiana, che non cresce da 20 anni, avrebbe bisogno per uscire da questa crisi di stimoli pari al 10-15% del Pil e cioè almeno cinque volte tanto quanto messo in campo sino ad oggi. Sono ordini di grandezza da 150-200 miliardi di euro. Aspettare sei mesi i soldi del Recovery fund farebbe avverare proprio la principale preoccupazione di Banca d’Italia e cioè gli “episodi diffusi di insolvenza”.
Ci chiediamo sinceramente, come domanda aperta, se questo possa essere il Governo in grado di gestire questa emergenza sia nell’importo degli interventi, sia nella loro qualità. Leggiamo ancora di piani discutibili per l’apertura delle scuole e di attacchi al mondo delle imprese che incomprensibili in uno scenario come quello descritto da Banca d’Italia. Come se le imprese e la voglia di fare impresa fossero un dato che prescinde dalle politiche del Governo. Come se l’opposizione a qualsiasi sburocratizzazione, che toglie potere alle figure apicali della Pubblica amministrazione, inclusa l’amministrazione della giustizia, potesse ancora avere senso in uno scenario da recessione profonda in cui bisognerebbe stendere tappeti rossi alle imprese e a chi ha ancora voglia di rischiare. Questo è quello che avviene in Europa, in Germania, nell’Est d’Europa dove evidentemente hanno capito perfettamente cosa sta succedendo. Stiamo parlando in questo caso di interventi senza costi per il bilancio statale.
Forse è il caso di girare lo scenario al ministro dell’Economia che un mese fa in un’audizione spiegava che si trattava solo di qualche punto di pil. E poi su fino al presidente della Repubblica. Perché lo scenario di Banca d’Italia e soprattutto il suo avvertimento sulla continuità aziendale sommato ai due punti di Pil messi in campo dal Governo significano, molto probabilmente, tensioni sociali come mai si sono viste negli ultimi 70 anni. Ci vogliono le migliori, e ultime, intelligenze del Paese altrimenti la situazione sfugge di mano.