“Emergenza Covid: record di contagi. La trincea ora sono gli ospedali e le terapie intensive”: a lanciare l’allarme di fronte alla corsa dell’epidemia, non solo al Sud, è Repubblica. I ricoveri sono ancora sotto controllo, ma agli ospedali – visti anche l’imminente arrivo dell’influenza e la scarsa distribuzione del vaccino antiinfluenzale – non resta troppo tempo per attrezzare nuovi posti letto e terapie intensive. Ma è davvero così? Com’è la situazione? Che cosa deve succedere perché si riempiano? “Noi non ci aspettiamo un’ondata di pazienti in ospedale, ma una grande richiesta di diagnosi differenziale e di inquadramento corretto all’esterno dell’ospedale: servizi che a marzo-aprile erano totalmente assenti”. Camillo Rossi è direttore sanitario degli Spedali Civili di Brescia, uno degli avamposti che più drammaticamente ha dovuto fronteggiare lo tsunami epidemico di marzo-aprile. Oggi gli Spedali Civili di Brescia sono “accentratori” di malati Covid, perché sono uno dei 17 hub regionali di terapia intensiva e pneumologia e uno dei cinque ospedali di primo livello per le terapie intensive, coprono tutto il territorio della Lombardia orientale. E per Rossi lo scenario è assai diverso rispetto a quello di sei-sette mesi fa: “Abbiamo imparato tanto dal punto di vista terapeutico; siamo capaci di testare meglio e più precocemente i positivi; siamo in grado di isolare i focolai così da frenare la morbilità. Il sistema lombardo, pur tra le mille difficoltà di un contesto pandemico, è meglio attrezzato”.



È scattato davvero l’allarme?

Gli Spedali Civili, che rispondono a un bacino d’utenza considerevole, un milione e mezzo di abitanti, non sono in una situazione di allarme per afflusso di malati e anche i nostri quattro pronto soccorso lavorano come nelle giornate normali. Oggi ospitiamo 6 pazienti Covid in terapia intensiva, 31 con tampone positivo in altri reparti e 26 che non hanno tampone positivo ma sintomatologia che richiama il Covid: poco più di una sessantina in tutto. Nella fase acuta di marzo-aprile ci siamo trovati con 850 pazienti Covid da curare. Non c’è paragone rispetto alla pressione di allora. La percezione che abbiamo non è che circoli meno il virus, ma quelli che arrivano in ospedale sono già filtrati e già ben inquadrati, quindi c’è una maggiore appropriatezza nell’uso delle strutture.



Questa è la situazione attuale, ma il trend non vi preoccupa?

Diciamo che ci troviamo in uno stato di allerta permanente, come è giusto che sia. È vero che si registra un incremento delle positività rilevate al tampone, ma si contano anche moltissimi asintomatici. Il virus circola, ma nel nostro territorio il tracciamento funziona, i focolai vengono individuati e il paziente che ha necessità di ricovero viene ospedalizzato senza sofferenza per le nostre strutture. Da diversi giorni il flusso di pazienti è pressoché stabile e non ci aspettiamo un assalto ospedaliero come a marzo-aprile, piuttosto una grande richiesta di diagnosi differenziale e di inquadramento corretto.



Che cosa è stato fatto in questi mesi?

Abbiamo messo risorse sul territorio, così da poter essere più tempestivi nell’effettuare i tamponi e i test alle categorie che è necessario testare, ma anche rispondendo a chi si presenta spontaneamente.

In che modo?

Abbiamo allestito un drive in in una tensostruttura che ospita anche degli ambulatori, dove tampone e referto vengono messi a disposizione in giornata, il che riduce il rischio di contagio. La struttura è esterna, perché riteniamo che l’ospedale vada “protetto” a favore di chi ha bisogno di essere ricoverato. E stiamo prevedendo altri servizi in collaborazione con l’Asst, per esempio per poter fare un inquadramento precoce non solo virologico, ma anche di tipo clinico.

Quali strutture potrebbero essere più in difficoltà?

Penso soprattutto gli ospedali medio-piccoli.

A marzo-aprile l’eccessiva ospedalizzazione e nei pronto soccorso la mancata separazione netta dei percorsi per pazienti Covid e non Covid avevano favorito l’esplosione dell’epidemia. Oggi cosa è cambiato?

Noi li abbiamo differenziati da subito, con un pre-triage esterno, dove il paziente veniva testato e indirizzato prima di accedere all’ospedale. Adesso abbiamo già percorsi differenziati all’interno e metodiche rapide per testare chi viene in pronto soccorso con determinate sintomatologie. È cambiata la selezione dei pazienti e i flussi non sono paragonabili ad allora.

La terapia intensiva al momento non è vicina alla saturazione, ma nel momento in cui ci fossero dei segnali di ripresa dell’epidemia?

Attiveremo ulteriori posti che sono previsti al di là della questione dei finanziamenti stanziati dal governo. Le apparecchiature acquisite nella scorsa emergenza sono già disponibili.

Quando può scattare la soglia d’allarme? E in quanto tempo l’ospedale sarebbe in grado di attrezzarsi per una risposta?

L’allarme non è legato al numero di tamponi positivi, ma scatta in base a indicatori previsti da Regione Lombardia. In quel caso siamo pronti a riattivare il pre-triage di accoglienza nel giro di 24 ore. E poi, a seconda delle necessità, a procedere alla riconversione dei posti letto in altri reparti. Abbiamo isolato un’ala dell’ospedale dove possiamo ospitare altri 160 pazienti Covid. Rispetto a marzo-aprile, però, siamo oggi in grado di tenere “puliti” e operativi gli altri reparti e le sale operatorie, che non si possono bloccare.

In alcune strutture ospedaliere si lamentano carenze di personale medico, infermieri e anestesisti. È così?

Questo è il problema vero: il reclutamento del personale, e non per motivi economici, perché Regione Lombardia ha dato il massimo della capacità di ingaggio, ma perché è difficile reperire sul mercato le professionalità necessarie. Noi li stiamo già cercando da tempo, non ci si può pensare quando si è nel bel mezzo del problema.

Che cosa ha insegnato l’emergenza di marzo-aprile? Sono cambiate le direttive rispetto ad allora?

Abbiamo imparato tanto dal punto di vista terapeutico; siamo capaci di testare meglio e più precocemente i positivi; siamo in grado di isolare i focolai così da frenare la morbilità. Il sistema lombardo, pur tra le mille difficoltà di un contesto pandemico, è meglio attrezzato. Poi ciascun territorio si è organizzato in base alle proprie capacità, utilizzando le soluzioni che ritiene più adeguate.

Non vi spaventa il possibile doppio assalto legato all’insorgere del Covid e dell’influenza stagionale?

No, perché i vaccini antiinfluenzali ci sono, non è vero che mancano le dosi. Piuttosto ci preoccupa la bassa adesione tradizionale alla campagna vaccinale. Ma chi si vaccina protegge sé stesso e protegge gli altri.

Molti ospedali si lamentano per le carenze di attrezzature e materiali.

Il problema dei Dpi, mascherine, guanti e quant’altro, non c’è, perché oggi l’approvvigionamento è più agevole.

Il rapporto medici di medicina generale-ospedali è stato un punto critico nell’emergenza Covid. E oggi?

C’è più collaborazione, anche perché sono stati attivati servizi di telerefertazione, teleconsulto, telemedicina che prima sembravano impossibili. Certo, siamo ancora all’abc, ma almeno ci sono.

Dovessero chiedervi di ospitare malati Covid provenienti da altre regioni?

Regione Lombardia ci sta ragionando e il governatore Fontana si è già espresso in tal senso. Noi aspettiamo indicazioni, ben sapendo che la cosa più importante è garantire la cura dei pazienti. Del resto, la scorsa primavera abbiamo preso pazienti dalla Bergamasca e in questi ultimi giorni stanno arrivando pazienti dal Milanese e dalla Brianza.

Che cosa bisognerebbe fare per evitare un nuovo collasso delle strutture ospedaliere?

Siamo tenuti tutti, operatori sanitari e cittadini, a una grande corresponsabilità, mantenendo la massima attenzione per la cura e per la sicurezza.

La curva epidemiologica si sta rialzando: come vive il personale ospedaliero questa situazione?

C’è attenzione, preoccupazione e tanto orgoglio, ma non si sentono degli eroi.

(Marco Biscella)

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