Circa 15 ettari di bosco andati in fumo, un migliaio di persone evacuate da camping, resort e abitazioni, due abitazioni finite in cenere, tre elicotteri e due Canadair impegnati senza sosta per ore e ore (anche dopo un giorno intero, vista la recrudescenza dei focolai), oltre a centinaia di Vigili del fuoco, Protezione civile, sanitari, agenti di pubblica sicurezza e di polizia locale, volontari. Un costo enorme, frutto quasi certamente – stando alle prime indagini – di un gesto volontario, doloso. È l’ultimo incendio (in ordine di tempo) che ha devastato la rovente estate italiana, trasformando in braciere il bosco prospiciente alle bellissime Porto Azzurro, Rio Marina, Ortano, all’Isola d’Elba.
Legambiente sostiene (basandosi sui dati satellitari EFFIS European Forest Fire Information System) che dallo scorso gennaio fino a luglio sono stati inceneriti 51.386 ettari, un’area equivalente ad oltre 70 mila campi da calcio. Più della metà (31.078 ettari) ha preso fuoco in appena tre giorni, dal 25 al 27 luglio. Le regioni più colpite sono la Sicilia (41.365 ettari pari all’80% del totale), seguita da Calabria (7.390), Puglia (1.456) e Abruzzo (284). E dire che le pene edittali per chi commette questo reato sono aumentate, con l’introduzione di aggravanti a effetto speciale per chi lo commette nelle funzioni di pubblico ufficiale, come ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. La modifica prevista all’articolo 423 bis del codice penale aumenterà da quattro a sei anni il minimo della pena per i responsabili degli incendi. Cresce da uno a due anni invece la pena in caso di incendio colposo. Con un principio fondamentale: la pena sarà ancora più pesante per i piromani che agiscono “all’interno di sistemi criminali, per ottenere profitto o addirittura ricoprendo allo stesso tempo incarichi legati alla prevenzione degli incendi: in casi simili la pena è aumentata da un terzo alla metà”.
Le cause. L’anno scorso in Italia sono stati 5.207 i reati accertati per incendi dolosi, colposi e generici, a fronte di oltre 68 mila ettari bruciati. È lotta ai piromani, insomma, ma evidentemente anche la prospettiva delle pene non basta, se mancano le difficili individuazioni dei responsabili e gli interventi preventivi. Va detto che il termine “piromane” sarebbe riservato a una persona mentalmente instabile, affascinata dal fuoco; chi agisce razionalmente, invece, andrebbe identificato quale “incendiario”. Ma tant’è, il risultato non cambia. Gli “psico-piromani” sono una quota risicata, così come sembrano ben limitati i fenomeni di autocombustione o quelli di negligenza di chi getta mozziconi accesi fra le sterpaglie, o improvvisa un barbecue in zone a rischio. La maggior parte degli incendi (indica QuiFinanza) va a carico dell'”industria del fuoco”, fiamme appiccate volontariamente “per creare posti di lavoro nelle attività di avvistamento, di estinzione e nelle attività successive di ricostituzione”.
“Il ricorso a mano d’opera precaria e poco qualificata, con una finalizzazione spesso più assistenziale che produttiva, ha talvolta indotto l’insorgenza di un ciclo vizioso, dove l’incendio volontario da parte di operai stagionali può costituire lo strumento per mantenere o motivare occasioni di impiego – recita il piano per la difesa della vegetazione dagli incendi boschivi (Aib) della Regione Sicilia -. Anche gli incendi appiccati come protesta contro la mancata assunzione o come estrema forma di dissenso contro la minacciata chiusura di cantieri rientrano in questa logica, in cui il bosco assume ruolo di ostaggio”. I boschi dunque vengono bruciati per assicurarsi nuovi terreni per colture o pascolo, o per trasformare in edificabili aree rurali, anche se sulle aree bruciate scatta un vincolo di 15 anni per impedirne il cambio d’uso, ma alle organizzazioni criminali gli investimenti a lungo termine evidentemente non spaventano.
Non va trascurato nemmeno l’impatto del divieto di bruciare le sterpaglie nei mesi estivi, proprio per contenere il rischio di incendi. Un divieto che agli agricoltori causa ritardi fastidiosi nel lavoro dei campi, tanto da spingere alcuni a infiammare le cataste, col rischio di perdere il controllo dell’incendio, che può propagarsi ed estendersi alle aree limitrofe. Infine (ma l’elenco delle possibili cause sarebbe ancora lungo, ed ogni incendio può nasconderne diverse insieme), vanno considerati gli atti squisitamente criminali, di vendetta, intimidazione, ritorsione, imposizione di protezioni malavitose.
I rimedi. Come si diceva, servirebbe più prevenzione, con monitoraggio dei territori, manutenzione boschiva, predisposizione delle barriere fermafuoco. Ma servirebbe anche rafforzare ogni attività investigativa, individuare un coordinamento tra le forze in campo, responsabilizzare le proprietà fondiarie, negare sine die i cambi di destinazione d’uso dei terreni, strutturare e selezionare gli operatori anti-incendio. Episodi pseudomafiosi a parte, per i quali occorre intervenire con gli strumenti della Dia, la realtà è che da troppo tempo i boschi sono lasciati incontrollati e privi di manutenzione. Ne è ben consapevole, ad esempio, la comunità della Val di Susa, che (dopo i devastanti incendi del 2017) ha varato nel 2020 il progetto coordinato PreFeu, per mettere in sicurezza il bosco ripagando le operazioni necessarie per farlo con la valorizzazione del legno ricavato. Perché con una selvicoltura preventiva, “che passa anche dall’abbattimento programmato degli alberi e in alcuni casi dal fuoco stesso – il cosiddetto fuoco prescritto – si riduce la densità della foresta e si minimizzano le possibilità di incendi su larga scala”, come sostengono a GreenMe. La Protezione civile, parlando di incendi boschivi e in zone di interfaccia urbano-rurale, mette in guardia dal pericolo della siccità, dà notizia di una cabina di regia permanente, di un coordinamento a livello europeo delle azioni di monitoraggio e prevenzione, di nuovi strumenti di controllo dei territori. Come i droni, che quel furbone ripreso a Curinga, in Calabria (dove sono 30 le aeromobili in servizio comandate da remoto), colto mentre tentava di mandare a fuoco chissà quanta boscaglia, ha preso a sassate.
Proprio quell’imbecille è il simbolo degli incendiari che ogni anno costano centinaia di milioni alla comunità: una sottocultura che ha abolito il noi per provvedere solo al sé, anche con il fuoco o a sassate. Se non si riuscirà a creare un upgrading anche in queste eccezioni umane (con più scolarità, più benessere, più senso civico, più legalità e certezza della pena) non si potrà mai sperare di azzerare il fenomeno incendi.
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