Uno spettro si aggira per l’Europa. Non è quello del comunismo – come rilevava Marx un secolo e mezzo fa -, è quello dell’inflazione.

La significativa spinta inflattiva che si è registrata in questi mesi, prima negli Stati Uniti e poi nel Vecchio Continente, sta legittimamente preoccupando non solo Governi e banche centrali, ma anche famiglie e imprese. In Europa ha raggiunto il 5%, il livello più alto dal 1996; negli Usa siamo quasi al 7%, il picco più alto da 50 anni a questa parte.



Naturalmente, non si tratta di un male in sé: quando l’economia sta bene, l’inflazione tende a salire. È che, in questo caso, la situazione è diversa per effetto in particolare della riconfigurazione della globalizzazione – da Oriente tirano la corda su gas e materie prime -, della crisi energetica e delle politiche monetarie espansive che contribuiscono al disallineamento della domanda e dell’offerta.



C’è chi vede i fantasmi degli anni ’70, quando la crisi energetica del ’73 avviò 10 anni durissimi – noti in tutto il mondo come il periodo della stagflazione, ovvero della crescita debole e dell’inflazione alta – che in Italia culminarono con il decreto di San Valentino che tagliava la scala mobile (1984, Governo Craxi) e con la successiva soppressione dell’automatismo dell’adeguamento dei salari all’inflazione (1992, Governo Amato).

Si trattò di un periodo complicatissimo della nostra storia repubblicana considerato anche il fatto che nello stesso tempo crollava il pentapartito e si avviava la famosa politica dei redditi, compiutasi poi nel ’93 con il fondamentale “protocollo Ciampi”. Fu proprio con questo grande patto concertativo che Governo e sindacati scrissero quelle regole contrattuali ancora in gran parte fondamentali per la determinazione dei salari. Il meccanismo fu poi perfezionato nel 2009 con l’introduzione del codice ipca, indice dei prezzi al consumo armonizzato su scala europea al netto dei costi energetici.



È storia ormai nota: con questo sistema si legavano i salari ai prezzi al consumo – e non, come si evince, al carovita – e si rinviava la distribuzione della ricchezza in azienda, allorquando e laddove prodotta.

Ora: gas e, in particolare, energia stanno subendo aumenti (rispettivamente +41% e +55% in confronto all’ultimo trimestre 2021) che vanno a stressare i salari in modo forte. Il Governo sta intervenendo, ma il punto è anche un altro. Negli ultimi 30 anni il potere d’acquisto in Italia è, come si suol dire, “fermo al palo dell’inflazione” (cosa nemmeno vera fino in fondo come abbiamo visto) mentre nei principali Paesi europei (Francia e Germania) è cresciuto di circa il 30%.

Al di là del fatto che sul piano contrattuale anche il capitolo “organizzazione del lavoro”, dopo la pandemia in particolare e il lavoro a distanza, sarebbe da modernizzare, come facciamo la transizione ecologica e il green deal con questi salari? Il costo della vita sta crescendo. E senza un adeguamento del potere d’acquisto, dietro la porta, in realtà rischia di esserci non l’ecologia, ma il malessere.

È difficile immaginare che siano le imprese a risolvere la situazione, vi sono settori in cui il costo del lavoro raggiunge in media il 55/60% (in particolare: logistica, tessile e confezionamento). L’unica possibilità è, nel breve periodo, quella di intervenire attraverso la leva del fisco, riducendo il cuneo. Dopodiché, nel medio-lungo termine, vi sono le condizioni per impostare una riforma risolutiva che prenda atto che piccole e grandi imprese non possono subire la stessa pressione fiscale.

Twitter: @sabella_thinkin

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