Un allarme lanciato dal quotidiano inglese The Guardian rivela che esistono in Medio Oriente organizzazioni criminali che producono passaporti falsi utilizzati per entrare in Europa, passando dalla Turchia, ma anche negli Stati Uniti attraverso il Messico. Sapendo dell’esistenza di migliaia di fuggitivi appartenenti alle milizie del distrutto Stato islamico, è lecito domandarsi quanti di questi approfittino di queste organizzazioni per giungere in Occidente e soprattutto se siano ancora cellule attive nell’esportazione della Jihad. “Situazioni del genere in Medio Oriente sono sempre esistite, realisticamente al momento non siamo in grado di dire se le persone che acquistano questi passaporti siano solo dei disperati che cercano rifugio in Europa o terroristi ancora attivi come era negli scorsi anni” ci ha detto Marco Lombardi, docente di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed esperto di terrorismo. “È indubbio” ci ha detto ancora “che l’Isis abbia, ad esempio in Siria, ancora una capacità organizzativa militare sul territorio, ma è certamente più debole che in passato, così come lo è la capacità di coordinare azioni terroristiche”.
La scoperta di queste organizzazioni criminali che fabbricano falsi passaporti ci deve indurre a temere l’arrivo di potenziali terroristi appartenuti all’Isis?
Sappiamo di questa organizzazione che fa capo a un uzbeko, attiva in Turchia, che rilascia passaporti falsi alla cifra di circa 8mila dollari l’uno. Di massima non sappiamo però, perché non c’è alcuna evidenza, se siamo davanti a un pericolo incombente.
È un allarme, come lo definisce The Guardian, o no?
Direi di no, queste cose sono sempre successe. Qualche anno fa addirittura erano scomparse le matrici per fare i passaporti in un paese del Medio Oriente, per cui qualcun altro li poteva emettere legalmente. Purtroppo è un commercio che esiste, non sappiamo se chi se ne avvale siano potenziali terroristi, persone che si spacciano per terroristi pur di avere un passaporto o disperati comuni.
Quindi, secondo lei, questo commercio non fa aumentare il rischio terrorismo?
Al momento non è possibile dire che stiamo vivendo una stagione di invasione terroristica con decine di passaporti falsi.
L’Isis però sta rialzando la testa: abbiamo visto l’attacco alle prigioni curde in Siria, un attacco in piena regola, con la fuga di centinaia di appartenenti all’Isis.
Sì, questo è vero. Ce lo aspettavamo; tutto il Medio Oriente, a cominciare dall’Afghanistan fino alla Siria, si è ampiamente dinamizzato. L’attacco alla prigione curda che lei ha menzionato è stato senz’altro più impressionante rispetto a questo allarme dei passaporti, è stato un attacco strutturato, che ha dimostrato come esista ancora una milizia organizzata capace di combattere sul terreno.
Ci si aspettava questa ripresa?
Sì, non potevamo aspettarci qualcosa di diverso. Quello che non sappiamo è fino a che punto questa capacità operativa è legata a una capacità che permetta al terrorismo di rilanciarsi fuori da questi territori. È un discorso diverso. Ci sta che ci siano milizie jihadiste che combattono in Medio Oriente e nel Sahel, e sarà così a lungo, però il passo successivo, cioè venire a compiere attacchi terroristici in Italia, dipende dalla capacità che questa organizzazione ha di coordinare gli attacchi, inviando qualcuno a farli o reclutando sul posto, come succedeva in passato attraverso la propaganda, qualcuno che è già qui e decide di farsi saltare in aria. Entrambe queste possibilità sono però più deboli che nel passato.
L’Italia ha sempre dimostrato di avere una intelligence anti-terrorismo molto efficace, lo stesso non si può dire di paesi come Francia o Germania. A che livello di controllo anti-terrorismo è oggi l’Unione Europea?
Credo che anche su questo tema occorra fare una distinzione. La comunità delle intelligence europee, ormai sulla scorta di questi ultimi dieci anni, ha imparato a mantenere delle relazioni efficaci indipendentemente da quelle che sono le possibilità formali che i diversi servizi hanno.
Che cosa significa?
Magari non ci sono stati passi avanti fino al punto di avere una sola intelligence europea, questo no, ma siamo di fronte a una comunità delle intelligence che in questi dieci anni ha imparato a stare insieme, a condividere informazioni, a preoccuparsi maggiormente come network e questo è un grande vantaggio.
(Paolo Vites)
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