Sono dati allarmanti quelli resi noti dall’Osservatorio nazionale sull’adolescenza. Il 6,5% dei minorenni italiani fa parte di una delle cosiddette baby-gang che tanto si sono tristemente distinte nella cronaca recente per atti di violenza, aggressioni, rapine, risse. Il 16% ha commesso atti vandalici e tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. Un fenomeno sociale prima che criminale, lo definisce il procuratore capo dei minori di Brescia, Giuliana Tondino. Alla base di tutto, più che “deficit cognitivi” come sottolinea il rapporto, c’è “un problema educativo” ci ha detto Mario Pollo, professore di Pedagogia generale e sociale alla Lumsa di Roma: “I ragazzi di oggi in qualche modo sono abbandonati a se stessi.



Conta di più per loro il gruppo di pari che le relazioni verticali con genitori e professori”. Se il gruppo dei pari è composto da elementi che fanno esperienze di devianza, ci ha detto ancora Pollo, “ecco che il ragazzo viene influenzato a prendere un percorso analogo”. Tutto questo perché gli adulti, che con il loro esempio dovrebbero aiutare i giovani a vivere quel momento critico che è il passaggio dall’adolescenza all’essere adulti, “sono oggi adulti infantili, incapaci di proporre loro un modello a cui guardare, obbligandoli a cercarlo tra di loro”. In sostanza, “mancano figure di adulti che sanno ascoltare, mostrare il senso del loro stare al mondo”.



Il rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza parla di “deficit cognitivi non riconosciuti o riconosciuti tardivamente” per spiegare questo disagio giovanile. Che ne pensa?

Non sono d’accordo, il deficit cognitivo non è causa di violenze o di trasgressioni. Posso avere una bassa capacità di elaborare un pensiero logico, un basso livello culturale, ma questo non comporta necessariamente che io sia un trasgressore o un deviante. Era una vecchia ipotesi della criminologia che collegava il compiere un gesto criminale a una carenza mentale. Studiosi più seri hanno rilevato come per compiere certi gesti occorre, anzi, avere una intelligenza molto sviluppata.



In realtà si parla anche di “deficit educativi”, ragazzi bocciati o che abbandonano presto la scuola senza inserirsi in modo regolare nel mondo del lavoro.

Questo è un evento che può innescare un percorso di devianza. Il fallimento scolastico non deriva quasi mai da un deficit cognitivo, ma da modelli di ragazzi non integrati nell’ambiente scolastico, che non colgono cosa significhi la scuola, che hanno probabilmente una famiglia che non li supporta in questo. Sono però ragazzi molto intelligenti.

Non a caso non si tratta solo di fenomeni relegati a certe zone particolarmente disagiate, ma si verificano anche in città come Milano da parte di giovani appartenenti a famiglie del ceto medio-alto. C’è quindi un problema educativo alla base di tutto?

Il problema vero è il modello educativo, che è in crisi. Questi ragazzi non trovano nel loro percorso, in un momento di passaggio delicato come è quello adolescenziale, chi li sostenga nel progettare la loro vita. Non vengono offerti loro degli esempi, delle esperienze che li aiutino a scoprire il proprio potenziale umano e gli obbiettivi del loro percorso di vita.

A mancare, quindi, è proprio il percorso mentale e psicologico in un momento essenziale nello sviluppo della personalità?

Sono in qualche modo abbandonati a se stessi. Nell’adolescenza oggi conta di più il gruppo di pari che le relazioni verticali con genitori e professori. Se nel gruppo dei pari si verificano episodi di violenza o di uso di droghe, ecco che accadono gli episodi di devianza citati dall’Osservatorio.

È il fenomeno delle cosiddette baby gang. È corretto, secondo lei, affermare che in queste gang gli adolescenti cercano un’appartenenza che non trovano altrove?

Il gruppo, sia quello normale che quello che si rende autore di episodi di devianza, è diventato il luogo principale dell’elaborazione del distacco dalla famiglia, e dalla sua dipendenza, per acquisire l’autonomia adulta. Una volta questo processo avveniva nel rapporto con il mondo adulto, oggi avviene nel mondo dei pari.

Cosa accade in concreto?

Accade che, se un ragazzo capita in un gruppo deviante, le esperienze che il gruppo gli propone diventano i percorsi di iniziazione al distacco dall’origine e l’elaborazione dell’autonomia adulta. È un modo disfunzionale. Quando la questione giovanile era oggetto di maggiore attenzione, in alcune realtà comunali e sociali esistevano centri di aggregazione giovanile dove si incontravano figure educative. Esistevano addirittura i cosiddetti educatori di strada con il compito di agganciare questi gruppi, entrare in relazione e lavorare con loro, al fine di prevenire e di sostenerli nel loro cammino di crescita.

Anche gli oratori avevano questa funzione.

Sì, ma per coloro che non avevano a disposizione gli oratori c’erano iniziative di carattere pubblico, sebbene non diffusissime, con uno spiccato interesse per i giovani e che oggi invece mancano completamente.

Cosa manca invece oggi nella famiglia e nella scuola? Che cosa ha causato la rottura di questo percorso educativo?

Spesso mancano figure adulte che l’adolescente desideri imitare, figure significative che possano avviare un processo di identificazione nel ragazzo. Molti adulti oggi, in famiglia e anche a scuola, sono adulti infantili che non diventano modelli, ragione per cui i ragazzi scelgono qualche altro adolescente per il processo di identificazione. In più, non c’è nella famiglia una capacità di dialogo. In passato più volte mi sono imbattuto in giovani che dicevano che i genitori non li ascoltavano, ma li giudicavano. È la capacità di ascolto, di essere propositivi di un modello che educa. Non si tratta solo di stimolare i figli al successo, ma di aiutarli a diventare se stessi. 

L’adulto che sa ascoltare, che sa mostrare il senso del suo stare al mondo è la figura che manca oggi. Lo ha ricordato anche Papa Francesco parlando al programma televisivo “Che tempo che fa”: adulti che sappiano stare con i figli. Bergoglio ha parlato di società crudele, che con i suoi ritmi di lavoro allontana genitori e figli. Che ne pensa?

È vero. Però vorrei citare l’esempio di mio padre: faceva due lavori, uno di notte e poi di mattina da un’altra parte. Nel pomeriggio doveva dormire, eppure non l’ho mai sentito assente. Non è tanto l’assenza fisica il problema, che certamente ha la sua importanza. Ma questa assenza può essere surrogata da un certo tipo di attenzione, anche quel poco tempo che si passa insieme può diventare un tempo significativo. E poi si può educare anche senza dire una parola: non si educa con le prediche, ma con il proprio modo di essere. Quando dico una cosa, chi mi ascolta sa che è una cosa che io vivo profondamente e a cui resto fedele. Ed è questa la cosa più importante, più della quantità di tempo trascorso insieme.

(Paolo Vites)

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