Si continua a discutere sull’overtourism, sull’eccesso di presenze, “un autolesionismo che il Paese non merita”, come sostiene il Governatore ligure Giovanni Toti, che accusa certa classe politica di considerare ancora il turismo figlio di un Dio minore rispetto ad altri settori. L’ultimo colpo è arrivato dall’Unesco, che nel suo recente report ha annunciato che Venezia deve essere salvata e va inserita nella lista “patrimonio mondiale in pericolo”, prevedendo “danni irreversibili per gli effetti del continuo deterioramento dovuto all’intervento umano, compreso il continuo sviluppo urbanistico, gli impatti del cambiamento climatico e il turismo di massa”.



Immediata la replica dell’ex sindaco-filosofo veneziano, Massimo Cacciari, che all’AdnKronos ha dichiarato che “l’Unesco è uno degli enti inutili più costosi sulla faccia della Terra… Sparano giudizi senza conoscere e senza sapere, procedono decretando pareri a destra e a manca, di cui è bene disinteressarsi: sono una baracca di mangiapane a tradimento, non tirano fuori un soldo, non danno un finanziamento per interventi reali, sanno solo decretare… Come se Venezia avesse bisogno dell’Unesco per essere un bene dell’Umanità!”. Ora, è vero che Venezia non ha davvero bisogno del timbro Unesco per attirare turisti, anzi. Ma è anche vero che non sembra saggio rincorrere quel timbro da un lato (e molte destinazioni italiane lo fanno, proprio per promuoversi e alimentare i flussi) e denigrarlo da un altro.



Comunque, tralasciando l’impotenza veneziana di incidere sul cambiamento climatico (lo dicessero i funzionari Unesco come fare), e la vaghezza del riferimento al deterioramento imputabile agli umani (cosa facciamo? Eliminiamo tutti e li sostituiamo con robot?), sul banco degli imputati resta ancora una volta l’overtourism. Allora occorre allargare l’orizzonte.

Il bilancio turistico dell’estate italiana dovrebbe chiudersi con 68 milioni di vacanzieri e 267 milioni di pernottamenti, rispettivamente il +4,3% e il +3,2% rispetto all’estate 2022, secondo Demoskopika, che prevede anche una “spesa turistica” di poco inferiore ai 50 miliardi di euro. Secondo Istat, l’incremento è stato quasi doppio rispetto a Spagna e Francia, con circa un milione di turisti dall’estero al mese in più, un trend che se mantenuto porterà al netto sorpasso rispetto al pre-pandemia, nel 2019. Un andamento che non può che giovare all’economia nazionale, e che colloca l’hospitality industry a un livello di valore più alto di quello della manifattura. Ma è un settore costantemente in ostaggio dell’inflazione, del rincaro dei prezzi al consumo, delle speculazioni sui carburanti. Sempre Demoskopika avvisa che nel settore – che subisce un’inflazione superiore di oltre 3 punti rispetto a quella dell’indice generale Istat – si vanno generando rincari pari a 3,9 miliardi della spesa turistica, una stangata superiore a quella che sta affrontando il turismo in Francia o Spagna o Grecia, tanto per citare i tre più diretti competitors dell’Italia. Per non dire delle prospettive a medio termine, che devono tenere conto anche del Pnacc, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, che prevede, nel caso in cui in Italia la temperatura dovesse aumentare di quattro gradi, un calo di turismo del 20%, scenario che impone rapide strategie di adattamento.



Quantità/qualità. Tra alti e bassi, allora, il dibattito sul turismo massivo vede poca obiettività e almeno due scuole di pensiero, divise tra insostenibilità e consapevolezza, ma unite nei possibili correttivi, quali destagionalizzazione (flussi motivati in periodi non consueti), delocalizzazione (promozione di mete alternative), numero chiuso, ticket d’accesso, educazione al turismo lento. Nelle liste comunemente sbandierate, però, manca sempre la madre di tutte le misure, la programmazione, che implica un lavoro preventivo di più competenze, sia pubbliche che private, e che forse proprio per questa sua complessità non viene mai affrontato. Si potrebbe iniziare con l’adottare una policy già frequente nelle gestioni alberghiere: il dynamic pricing, ossia stabilire tariffe diversificate secondo le previsioni di affluenza, servizi (trasporti, parcheggi, tasse di soggiorno, ingressi) meno cari nei periodi bassi, più costosi in quelli di punta. In questo senso, il prezzo che comporta una maggiore qualità erogata potrebbe portare automaticamente a un aggiustamento della quantità di presenze. Ma si potrebbe-dovrebbe puntare anche sulla formazione degli addetti (sempre in ottica qualitativa), aggiustare i calendari dei grandi e piccoli eventi attrattivi, varando attività nelle stagioni terze e in centri minori, con il sostegno ai brand territoriali. E si potrebbero agevolare, anche fiscalmente, i residenti che resistono in località iperaffollate di turisti, anche se la loro rarificazione è spesso dovuta proprio al fatto che molti preferiscono trasferirsi in zone limitrofe per poter mettere a reddito le loro abitazioni a fini turistici. Chissà cosa ne dice l’Unesco…

La produzione. Il turismo sta diventando, o è già diventato, un’industria pesante, visto quel 13% di Pil prodotto, senza alcuna delocalizzazione. Il fatturato del turismo è dato da servizi, esperienze, ospitalità, benessere: sono beni fungibili eppure con precise specificità, perché sempre più conta sì il luogo, ma ancora di più l’esperienza. Le ricadute del settore sono ben evidenti: la ricchezza dei territori, l’occupazione, l’aumento dei consumi, gli investimenti. Eppure, nonostante gli effetti benefici, da più parti (quasi mai “in causa”) si lamenta l’eccesso di presenze, cioè della produzione di quest’industria, davvero un’eccezione da studiare. E spesso si ricorre alle drastiche misure per limitare la domanda (numero chiuso), più che adottare – come si diceva – strategie di lungo respiro, che non possono che aumentare e stratificare l’offerta, puntando sempre sulla qualità, in una razionalizzazione del comparto che deve passare anche da controlli sistematici per estirpare il nero e il grigio, questi sì vere minacce per un upgrading verso la competitività internazionale. Si provi a interrogare invece le parti davvero “in causa” (lavoratori e operatori delle località turistiche) chiedendo loro un parere su un’eventuale decrescita di arrivi e presenze… Forse l’Unesco dovrebbe tener conto anche delle loro risposte, perché è cosa buona e giusta preoccuparsi dei patrimoni dell’umanità, ma sarebbe cosa ottima inquadrarne la salvaguardia tenendo conto della sostenibilità anche economica del tessuto sociale che vi insiste. A meno di considerare quei patrimoni solo musei.

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