L’Istat ha diffuso ieri le statistiche sulla povertà relative al 2021. Rispetto al 2020, anno in cui l’incidenza aveva raggiunto i suoi massimi storici, la povertà assoluta resta stabile: riguarda poco più di 1,9 milioni di famiglie (con un’incidenza pari al 7,5%, contro il 7,7% del 2020), per un totale di circa 5,6 milioni di individui (incidenza al 9,4%, come nell’anno precedente). A livello territoriale, la povertà assoluta è però scesa “in misura significativa” (dal 7,6% al 6,7%) al Nord, mentre “si conferma più alta nel Mezzogiorno” (passando dal 9,4% al 10%).



Facendo, invece, riferimento alla classe di età, l’incidenza di povertà assoluta si attesta al 14,2% fra i minori, all’11,1% fra i giovani di 18-34 anni e rimane su un livello elevato (9,1%) anche per la classe di età 35-64 anni, mentre si mantiene su valori inferiori alla media per gli over 65 (5,3%). In prospettiva l’aspetto forse più preoccupante è che vi è stato “un incremento più contenuto della spesa per consumi delle famiglie meno abbienti”, insufficiente “a compensare la ripresa dell’inflazione”, che l’anno scorso si è attestata “solo” al +1,9%, mentre a maggio di quest’anno ha già raggiunto il +6,9%.



«Quelli dell’Istat – sottolinea Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – sono dati relativi a un anno in cui c’è stato un importante rimbalzo del Pil (+6,6%). Teoricamente, quindi, avremmo dovuto registrare una diminuzione della povertà assoluta e non una sua sostanziale stabilità a livelli preoccupanti, soprattutto per i minori. E se questa è la situazione del 2021, mi chiedo cosa potrà accadere quest’anno, vista l’inflazione in forte aumento».

In effetti quando si parla di inflazione ci si trova di fronte a una sorta di tassa, ma particolarmente iniqua…



Certamente. E se si parla di povertà assoluta non bisogna dimenticare che ci si riferisce di fatto a nuclei familiari che scarsissima, o addirittura nulla, capacità di risparmio. La congiuntura che stiamo attraversando non è certamente favorevole e sono piuttosto preoccupato dai dati relativi ai minori e agli under 35, perché non si vedono miglioramenti nel benessere dei bambini e delle loro famiglie.

A questo proposito l’Istat segnala che “l’incidenza di povertà assoluta aumenta al crescere del numero di figli minori presenti in famiglia (6,0% per le coppie con un figlio minore, 11,1% per quelle con due figli minori e 20,4% per le coppie con tre o più figli minori) ed è elevata tra le famiglie monogenitore con minori (11,5%)”.

Questo significa che non è cambiato niente: nel nostro Paese, che da diversi anni vive una crisi di natalità senza precedenti, avere un figlio è certamente una scommessa positiva sul futuro, ma resta purtroppo un rischio non da poco per il benessere della famiglia e degli stessi bambini.

L’unica cosa che è cambiata dall’anno scorso a quest’anno è che c’è l’Assegno unico.

L’Assegno unico è certamente una buona idea, ma per funzionare bene davvero deve avere anche le necessarie risorse. E nel confronto con Francia e Germania, giusto per fare un esempio, il divario del nostro Paese su questo fronte purtroppo non parrebbe diminuito. Certamente con l’Assegno unico è stata fatta maggior chiarezza contabile rispetto alle varie misure preesistenti per i figli, ma forse poco è cambiato per quel che riguarda il tenore di vita delle famiglie con figli.

Forse c’è un problema non da poco a monte che impedisce al momento di stanziare più risorse per l’Assegno unico: vista anche la situazione generale, con lo spread in rialzo, non ci si può permettere di aumentare il livello della spesa corrente dello Stato.

Questa è un’importantissima osservazione. La spesa per i figli è l’investimento più clamorosamente tale che si possa immaginare, ma resta ancora al palo. Occorre comprendere che non si tratta di spese che vanno considerate in blocco come spese correnti, ma che c’è una componente di investimento che non può essere ignorata.

Bisognerebbe di fatto arrivare a una sorta di separazione contabile?

Con tutte le cautele del caso dal punto di vista contabile, ma una distinzione va fatta. Dar da mangiare ai figli, pagare la loro scuola non può essere considerato una spesa corrente da tenere sotto controllo: è un investimento. Diciamo che l’Assegno unico ci consente di porre finalmente una questione cruciale: è corretto considerare spesa corrente delle spese che hanno tutte le caratteristiche di un investimento?

È una questione da portare ai tavoli europei?

Esattamente. Occorre certamente evitare gli abusi, ma non si può considerare come spesa comprimibile quel che è incomprimibile. In una società civile come la nostra ci sono spese incomprimibili, perché si tratta di investimenti che garantiscono la possibilità che questo Paese sopravviva fra 20 anni. Mi rifiuto tra l’altro di credere che la spesa per la famiglia rappresenti una percentuale tale da richiedere un’attenzione puntigliosa da parte di chi controlla i conti pubblici.

Nelle ultime settimane si sono ipotizzate modifiche all’Assegno unico, agendo anche sull’Isee, per renderlo più efficace.

L’Assegno unico è un’ottima idea, ma, come spesso purtroppo accade per alcune buone idee, quello che poi diventa un problema veramente serio è la loro implementazione. Per esempio, il Reddito di cittadinanza è una misura condivisibile da tanti punti di vista, ma la sua attuazione non ha dato i risultati sperati. Dunque, bisogna fare in modo che l’attuazione dell’Assegno unico sia quanto più efficace possibile, anche per non rischiare che vi sia una sorta di disillusione da parte di chi è ugualmente bisognoso, ma non riceve nulla o meno degli altri.

A proposito di Reddito di cittadinanza e dei suoi risultati, l’Istat segnala che nelle famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione, l’incidenza arriva al 22,6%. Dunque resta importante creare lavoro…

Lavoro e crescita devono essere la pietra angolare di qualunque politica economica si possa fare in un momento di crisi come questo.

E come si crea lavoro?

Un evergreen in questo senso sono gli investimenti, che hanno la caratteristica di essere delle spese che a un certo punto finiscono, e quindi non si pone il problema che si ha con la spesa corrente da ridurre. Occorrono quindi investimenti per attraversare una crisi che mi auguro finirà. Non dimentichiamo poi che gli stabilizzatori automatici contro la disoccupazione sono una leva fondamentale, come insegna il caso della Germania e della sua ripartenza dopo la crisi del 2008.

Bisogna lavorare anche su quelli. C’è, quindi, un’opera molta complessa da portare avanti e concretizzare.

È vero, ma non siamo di fronte a una piccola deviazione da un sentiero di crescita: c’è il rischio di una seria crisi che non è da sottovalutare. E quella che ormai sta purtroppo diventando una regola nelle crisi è che il prezzo più alto viene pagato da chi non ha dei cuscinetti di risparmio che gli consentano di superare il periodo di difficoltà. E se manca questo deve intervenire in qualche modo, con tutti i crismi del caso, il settore pubblico.

(Lorenzo Torrisi)

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