“Anomalia termica”. Così gli osservatori meteorologici descrivono il clima di queste settimane, con l’assenza di piogge da un lato, e il permanere di temperature al di sopra delle medie stagionali, dall’altro. Le Regioni hanno proposto all’esecutivo, a ragione, di dichiarare lo stato di emergenza nazionale, chiedere l’aiuto della Protezione civile e siglare un’intesa con i produttori di energia idroelettrica per agevolare l’uso civile e agricolo dell’acqua. Probabile anche un tavolo con il Governo nelle prossime ore.
Tuttavia, non illudiamoci. L’emergenza, auspicando passi in fretta, è destinata a ripetersi. I processi di desertificazione e i fenomeni di siccità segnano il nostro tempo e riguardano tutto il pianeta. In Italia, dal 2000 abbiamo registrato il 25% in meno di precipitazioni estive. Oggi abbiamo l’invaso di Piano della Rocca, nel Parco Nazionale del Cilento, con il 48,31% d’acqua rispetto a quella di un anno fa. Il fiume Po al di sotto di 8 metri dalla media, il Lago Maggiore con un livello idrico del meno 40%. Fiumi e montagne, sentinelle del clima, ci confermano un quadro tragico, lo stesso che stanno registrando nelle campagne i lavoratori e i produttori agricoli, specialmente in Piemonte ed Emilia Romagna: colture in sofferenza, raccolti di frutta a rischio, foglie di riso che inverdiscono in segno di stress idrico, produzioni dimezzate per mais e soia, tra l’altro proprio nel pieno della crisi produttiva indotta dalle politiche di Putin e dall’offensiva militare contro l’Ucraina. Inoltre, l’uso civile e agricolo dell’acqua richiede un rallentamento della produzione energetica idroelettrica. Perché l’acqua, bene primario per eccellenza, quella è. E per questo bisogna saperla gestire, anche quando abbiamo il rovescio della medaglia della siccità, cioè quegli eventi estremi che producono dissesto idrogeologico ed esondazioni.
La crisi idrica che stiamo vivendo non è la prima e non sarà l’ultima, è figlia di quel “degrado” del territorio di cui parlano anche i recenti dati del Global Land Outlook, con il 28% del suolo italiano e il 40% di quello terrestre colpiti da desertificazione e siccità. Attualmente, dichiara il report, circa 500 milioni di persone vivono in aree dove il degrado ha raggiunto il suo massimo livello, cioè la perdita totale di produttività.
Anche l’emergenza della siccità, tragica per la sua portata, per l’impatto devastante che ha sul sistema produttivo e sull’uso civile delle risorse idriche, viene da lontano. È miope farsi trovare impreparati. Non aspettiamo dunque di giungere al punto di non ritorno. Lo scenario, per quanto tragico, può essere governato. Perché se è vero che fiumi e montagne sono le prime sentinelle del clima, abbiamo altrettante sentinelle del territorio in grado di intervenire e incidere con buone pratiche e lungimiranza. Sono quelle che dovremmo chiamare con orgoglio le “tute verdi”, i lavoratori e le lavoratrici dell’agroalimentare, dei consorzi di bonifica, della forestazione. Categorie che, come sosteniamo da tempo con la nostra campagna “Fai bella l’Italia”, bisogna rendere protagoniste di un nuovo rapporto tra persona e ambiente.
Questo vuol dire che per passare da una gestione emergenziale a una più strutturale dei cambiamenti climatici occorre una sinergia tra sindacati, imprese e istituzioni, affinché siano intraprese una serie di azioni di corto, medio e lungo periodo, che come Fai Cisl stiamo promuovendo da tempo. Dotare i territori di impianti a pioggia e manichette, praticare rotazioni, costruire invasi, qualificare i consorzi di bonifica anche in termini di produzione energetica, con la possibilità di installare pannelli fotovoltaici galleggianti senza consumare altro prezioso suolo agricolo. E poi: valorizzare la bilateralità per migliorare il mercato del lavoro, per formare i lavoratori nell’utilizzo virtuoso delle nuove tecnologie, che parlano il linguaggio dell’agricoltura 4.0 e offrono tante possibilità di gestione virtuosa dell’acqua. E ancora: programmare un uso produttivo e rigenerativo dei boschi, anziché abbandonarli a sé stessi in nome di un’ambigua e pericolosa idea di tutela ambientale. E infine: gestire in modo partecipato e lungimirante gli 880 milioni previsti dal Pnrr per le infrastrutture irrigue, in modo coerente con la Strategia europea per il suolo al 2030. Coltivare una transizione ecologica, insomma, che non impatti negativamente sul lavorol ma, al contrario, possa rappresentare nuove opportunità di crescita e sviluppo sostenibile.
Tutto questo è possibile, purché si comprenda il principio che a fare la differenza, nel lungo periodo, sarà sempre il capitale umano. Promuovere il dialogo sociale e la buona contrattazione, in questa visione, è l’abc per un Paese che voglia dirsi avanzato.
“There are no jobs on a dead planet”: con questo slogan il sindacato internazionale ci ha ricordato, in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente, che il cambiamento climatico ha un impatto diretto sulla società e dunque sul mondo del lavoro, e richiede perciò che a occuparsene siano anche le parti sociali, con un ruolo che deve essere di primo piano. È vero, “non ci sono posti di lavoro su un pianeta morto”, ma è vero anche il contrario: non c’è tutela del pianeta senza il lavoro qualificato, ben retribuito e contrattualizzato. Questo non è un principio populista, anzi, è una visione di responsabilizzazione che deve coinvolgere tutti, nella sfida ai cambiamenti climatici, a partire dalle scelte quotidiane di ciascuno: lavoratori e imprese, cittadini e istituzioni, amministrazioni locali e regionali, governi nazionali e organismi internazionali.
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