Dopo mesi di assenza di piogge e alte temperatura, l’allarme siccità è sempre più un’emergenza. Il Piemonte è la regione più colpita, con oltre 200 comuni in cui l’acqua è razionata, invasi al minimo storico con una riduzione media dal 40 al 50% il livello del Po mai così basso da 70 anni. Ma la mappa delle criticità si estende da nord a sud e secondo la Protezione civile “le tendenze non sono positive”, tanto che il governo Draghi sta preparando un decreto per varare, a luglio, lo stato d’emergenza. Intanto sindaci e governatori chiudono i rubinetti e adottano misure straordinarie.
Ma la soluzione è un’altra. “Bisogna fare con urgenza sistema – spiega Marco Marani, Professore associato di Idrologia presso la facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Padova e Coordinatore del nuovo corso di laurea in lingua inglese in Water and Geological Risk Engineering, che prepara un selezionato gruppo di studenti internazionali sui temi del rischio idrologico e geologico, quali piene e siccità -, occorre far sì che si possano immagazzinare, da un anno all’altro, gli apporti delle precipitazioni, quando queste avvengono e sono magari particolarmente abbondanti, investendo in una rete di invasi che può poi tornare utile nei periodi siccitosi come quello che stiamo vivendo e che sono destinati a ripetersi. Serve quindi una programmazione degli invasi pluriennale, che ci consentirebbe di fare molto di fronte alla progressiva diminuzione delle piogge. Bisogna però agire in fretta, abbiamo già sprecato troppo tempo”.
Perché siamo in questa situazione: tutta colpa di scarse piogge e temperature elevate?
Indubbiamente la causa principale è la scarsità delle piogge, un fenomeno legato ai cambiamenti climatici e che è opportuno e importante studiare e indagare a fondo. E nelle proiezioni dell’Ipcc, in Italia, che si trova nella parte mediterranea dell’Europa a sud delle Alpi, sono attese precipitazioni medie annue in progressiva diminuzione nel corso di questo secolo. E la tendenza alla riduzione, già registrata nelle vicinanze delle Alpi, sarà ancor più marcata nel Sud del paese.
Si possono fornire dati sulla scarsità di precipitazioni sul nostro paese?
Negli ultimi 12 mesi la quantità di precipitazioni caduta è nettamente al di sotto delle medie di lungo periodo, ci si allontana molto, verso il basso, dalle medie degli ultimi 20-30 anni.
Quanto?
Abbiamo deviazioni che, qualora non ci fosse il cambiamento climatico in atto, accadrebbero ogni 300-400 anni. Sarebbero scostamenti molto improbabili, se fossimo in presenza di un clima stazionario, invece negli ultimi anni si stanno verificando molto più frequentemente rispetto ai dati da inizio del secolo scorso.
Tanto per avere un ordine di grandezza, in genere quanta pioggia cade in Italia in un anno?
E’ difficile dare un numero, perché la situazione non è omogenea su tutto il territorio italiano. In alcune zone delle Alpi la “lama” d’acqua, cioè l’altezza della quantità di precipitazioni, potrebbe arrivare anche oltre i 2mila millimetri di pioggia all’anno per metro quadro. In alcune zone della pianura padana può toccare gli 800-1000 millimetri, mentre in alcune aree più aride del Sud siamo nell’odine dei 100 millimetri.
E quanta pioggia ci manca oggi?
Prendiamo, per esempio, il Veneto. L’anomalia delle precipitazioni dal 1° gennaio al 31 maggio 2022, ovvero quanti millimetri di pioggia mancano rispetto alla media per lo stesso periodo, mostra che “mancano” tra 150 e 250 millimetri di pioggia, a seconda della zona. Tenga conto che nella parte sud-est del Veneto, pianeggiante, la precipitazione media annuale è 800-900 millimetri all’anno. Significa che le mancate precipitazioni sono circa il 20-25% della precipitazione media annua, proprio nel periodo primaverile-estivo in cui ci sarebbe maggior bisogno di acqua piovana per le colture.
Ghiacciai, innevamenti, fiumi, laghi e anche fonti d’acqua sono destinati a soffrire di più?
Certo. Il livello delle falde acquifere è andato piano piano riducendosi negli ultimi 10-20 anni. E’ il risultato dei minori apporti medi di precipitazioni. Attenzione però a trarre conclusioni affrettate.
In che senso?
La quantità media diminuisce, ma purtroppo – e lo confermano le proiezioni della stessa Ipcc – l’intensità delle precipitazioni sta aumentando a causa del riscaldamento globale, che genera una maggiore energia sulla superficie terrestre, che a sua volta alimenta e moltiplica gli eventi più estremi.
Risultato?
Non solo avremo meno acqua, ma questa precipiterà a terra in maniera più concentrata nel tempo.
Che estate si prospetta? Andiamo incontro a una grande sete? Sono a rischio chiusura anche le centrali idroelettriche?
Sì, è un rischio concreto. Lo vediamo non solo nel bacino del Po, uno dei più colpiti, ma anche in altri bacini alpini e prealpini, dove la situazione degli invasi è preoccupante. Quindi abbiamo meno acqua per far fronte agli utilizzi.
Agricoltori e allevatori hanno già lanciato l’allarme…
Gli usi preponderanti sono infatti legati all’agricoltura e alla produzione idroelettrica, che sono fra loro in competizione. L’irrigazione richiede uso dell’acqua prima e durante i mesi estivi, per sostenere la crescita delle colture, e non può certo essere troppo penalizzata, mentre la produzione idroelettrica richiederebbe di mantenere pieni gli invasi fino all’autunno-inverno quando servirà per produrre una maggior quantità di energia elettrica, in un periodo in cui altre componenti fossili per la produzione costano molto di più. Insomma, la coperta è corta, si dovrà raggiungere un compromesso che non sarà certo facile da trovare.
Le Regioni chiedono di aprire le dighe e Coldiretti sostiene che serve un piano per gli invasi. Un passo necessario?
Il piano degli invasi è una priorità, una necessità indifferibile, e adirlo sono anche molte Autorità di gestione delle acque e l’Associazione nazionale per le bonifiche. Se ne parla da tempo e purtroppo anche fenomeni siccitosi recenti non hanno dato impulso alla sua realizzazione per ottenere un aumento dei volumi invasabili a monte, compatibilmente con la salute ecologica dei fiumi, perché non si può trattenere tutta l’acqua a monte, lasciando all’asciutto le acque di valle. Bisogna operare con criterio, ma c’è spazio per aumentare la capacità invasabile nelle aree alpine e prealpine. Potessimo già oggi avere questi volumi, pur in presenza di secche preoccupanti dei nostri fiumi, potremmo contare su una riserva molto preziosa in una situazione critica come questa.
Occorre anche potenziare e migliorare la raccolta di acqua piovana?
E’ proprio quello che stavo dicendo sul potenziamento degli invasi, che possono essere di due tipi: di grandi dimensioni a monte, in grado di fra fronte ai problemi siccitosi strutturali, e di piccole dimensioni nelle zone pedemontane o vallive per usi più locali e circoscritti.
La rete idrica italiana è un colabrodo. Come evitare sprechi e perdite?
La situazione dell’efficienza distributiva, che presenta grandi variabilità a livello geografico, può certamente essere migliorata, soprattutto sul versante delle irrigazioni. Più che il consumo domestico dell’acqua potabile, che pesa in misura marginale, a incidere sono soprattutto i volumi utilizzati per scopi irrigui, idroelettrici e industriali.
Come ottimizzare l’efficienza del fabbisogno agricolo?
Si deve passare dall’irrigazione a pioggia o a scorrimento, metodi poco costosi ma anche poco efficienti, a metodi più moderni, che però richiedono investimenti.
Ci sono sistemi di rifornimento idrico alternativi? Si può utilizzar l’acqua del mare per far fronte a emergenze acute?
Potenzialmente sì, ma non è una soluzione su scala nazionale. Occorre fare un’attenta valutazione costi-benefici: la desalinizzazione, infatti, richiede molta energia e la produzione di questa acqua desalinizzata è molto costosa. Inoltre va fatta vicino alle coste, perché per trasportarla altrove avremmo bisogno di adeguate infrastrutture di trasporto fino al punto di utilizzo.
L’Italia è a rischio desertificazione?
In alcune aree dell’Italia meridionale il clima è già arido e sta virando verso un clima ancora più caldo.
(Marco Biscella)
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