Padre Paolo Benanti – già decente alla Pontificia Università Gregoriana, tra i massimi esperti di etica della tecnologia, ma anche unico italiano nel Comitato IA delle Nazioni Unite e presidente dell’analoga Commissione italiana – è intervenuto nella trasmissione Dibattiti per approfondire il tema dell’intelligenza artificiale, con particolare riguardo alle sfide che ci attendono, ma anche ai limiti e ai fini eticamente intesi della sperimentazione. Alla cosiddetta IA, infatti, padre Benanti ricorda che si accompagna anche il tema dell’editing genetico con il quale si mira a ‘modificare’ biologicamente l’essere umano per risolvere malattie altrimenti incurabili.
Il punto di partenza, però, secondo il teologo va fissato necessariamente attorno alla parola “limite” che rappresenta – con un paradosso – un vero e proprio limite già di per se “perché c’è forse una cattiva comprensione culturale”. Per spiegarsi meglio padre Benanti prende come esempio un’automobile, di cui “noi capiamo il limite come ‘limite di velocità'” perché “qualcuno ci ha messo da fuori un dettato che ci impedisce di andare più rapidi di quanto stiamo andando”. Ma questo, spiega, non basta perché ci saranno quelli che lo infrangeranno, almeno fino a quanto “la scienza ci dice che c’è un altro limite in quell’automobile, cioè se io non metto la benzina all’interno del motore, il motore non funziona”.
In quel contesto – e questo vale anche per l’intelligenza artificiale – si parla di etica nel caso in cui il limite diventa “prescrittivo perché è descrittivo. Cioè, io non so bene cosa succederà a quell’uomo, cosa la mia manipolazione potrà produrre e quell’incerto è troppo grande rispetto al valore che ho davanti”; ma tutto di fa ancora più interessante – secondo padre Benanti – quando si aggiunge all’equazione dell’IA anche le biotecnologie perché “questa manipolazione del biologico mediante strumenti molto sofisticati e avanzati [può] produrre grandi forme di guadagno o grandi armi dal punto di vista biologico”. Questa, secondo il teologo, “inizia a essere una frontiera del limite che si avvicina. Qui c’è tutto il limite dell’umano. C’è tutto il limite dell’umano e il limite del diritto perché è facile avere una forza del diritto all’interno di una comunità giuridica [ma] i problemi più grandi escono e si affrontano là dove non c’è una comunità giuridica”.
Padre Paolo Benanti: “La società ha perso i suoi punti di riferimento”
Così, dal limite il ragionamento di padre Benanti sull’intelligenza artificiale non può che passare al tema del ‘fine’ ultimo della sperimentazione, dello sviluppo e del progresso. “Quali fini sono veramente degni di tutto questo”, si chiede il teologo, “e possono essere condivisi”; per giungere alla risposta che (almeno per ora) “non possano essere calcolati. Oggi va molto di moda questo approccio, che è un approccio estremamente utilitaristico” basato, spiega, “sull’idea che di fatto dovremmo fare solo le cose che nel lungo periodo porteranno il miglior beneficio all’umanità; ma il problema è che nella pratica questo non è detto che possa essere messo in pratica” perché, sottolinea ancora padre Benanti, non possiamo definire “quante generazioni [sono] disposto a sacrificare perché ci sia quella generazione per cui voglio fare il bene”.
Questa è un po’ la sfida attorno a cui si gioca tutto il tema dell’intelligenza artificiale, ma sorge un ulteriore problema che affonda le sue radici nella crisi del “criterio d’autorità. Durante il Covid avevano fatto questa indagine e si era visto che il 5% degli italiani sono terrapiattisti” e fermo restando che noi “abbiamo un’istruzione che è un’istruzione obbligatoria” è sempre più chiaro che “non ha funzionato, [perché] c’è una fonte che è più credibile di un libro di testo”. Non è il fallimento della scienza propriamente inteso, secondo padre Benanti, quando piuttosto “la crisi della direzione della conoscenza. Se prima il giovane andava dall’anziano a imparare, oggi è mio nipote che insegna a mio padre come si usa il tablet. Questo dice che i punti cardinali, i punti di riferimento, vengono a mancare. E se noi perdiamo l’autorevolezza della scienza”, conclude con una nota di amarezza, “il problema è che cosa è rimasto di quella conoscenza che abbiamo accumulato come umanità”.