La realtà non è soltanto testarda, ma anche sfacciata. Così un conto è sentir parlare dall’informazione di una calamità naturale, un conto è trovarcisi in mezzo, come sta accadendo oggi, ma a cominciare da ieri, nella mia città, Cesena: improvvisamente le immagini diventano sentimenti forti, di ansia, paura, angoscia, ma anche partecipazione e assoluta vicinanza con chi subisce danni e dolore peggiori dei nostri.
Piove da lunedì e le autorità pensano bene di chiudere le scuole, i luoghi di aggregazione e chiedere a tutti di limitare al massimo gli spostamenti, così da martedì chi può sta a casa. La pioggia incalza con un’insistenza crudele, durante il mattino iniziano a saltare tubature e tombini, il fiume, che da noi è il Savio, si avvicina imperterrito al bordo degli argini e al colmo delle arcate dei ponti. L’acqua è marrone, sembra così anche quella che scende pesantissima dal cielo.
Ma, principalmente, è tutto vero, altro che schermi, anche il presentimento cupo che c’è nell’aria liquida di qualcosa di orribile che nessuno sa come impedire. Intanto molte cantine, garage e seminterrati si allagano, anche delle case recenti. Il traffico si dirada, i disubbidienti sono pochi: sui social rimbalzano avvertimenti e allerte, il sindaco stesso ci mette la faccia e dice che tra breve il fiume uscirà dal suo letto.
Verso le tre e mezza del pomeriggio il terribile sentore che ci rimbalziamo da un po’ diventa realtà: il fiume scavalca gli argini e, dopo una frazione di tempo e di esitazione, invade la città: case negozi uffici allagati, macchine sommerse, qualche poveraccio che non ha fatto in tempo a scappare si trova, letteralmente, con l’acqua alla gola. Iniziano le tragiche notizie dei dispersi.
Sembra impossibile: quando capita qualcosa del genere, alluvione, terremoto, eruzione, tornado, pare di non essere mai pronti: capita proprio a me? Erano cose sempre ascoltate nei telegiornali, che riguardavano altri abitanti di altri luoghi. Inaspettatamente, invece, è la nostra città ad essere sommersa, i nostri concittadini, mai così cari, a soffrire e, santo cielo, persino a morire. Gente sui tetti, costruzioni spazzate via, ettari ed ettari marciti sotto tonnellate d’acqua, strade interrotte, ponti spezzati: né auto né treni, né niente. Solo elicotteri che, come in un film catastrofista di quelli di Hollywood, vanno e vengono a trarre in salvo persone intrappolate dal diluvio.
Viene notte, ma chi dorme. Tutti a pensare agli amici, ai parenti, ai conoscenti che abitavano in centro, al piano terra, ospitati adesso in una palestra scolastica, dopo aver perso tutto. Altro che dormire! Rintronano in testa le immagini e i messaggi che per tutto il giorno ci siamo scambiati: quello è il mio supermercato, completamente allagato, quella la strada dove abita il mio amico, quella la mia parrocchia, che sembra una nave che galleggia col pennone-campanile. I cassonetti che navigano per la strada, urtando le macchine che non s’è fatto in tempo a parcheggiare in altura; la città divisa in spezzoni, perché né ponti né sottopassi sono utilizzabili; i parenti e gli amici che da tutt’Italia scrivono: abbiamo visto… state bene? Possiamo aiutarvi?
Si vorrebbe adesso, subito, prendere una vanga e uscire a dare una mano ai più sfortunati di noi, iniziare senza aspettare a rispondere al mostro, al dispetto mostruoso del fiume. Ma è buio, e soprattutto piove ancora a dirotto e, dicono, scroscerà fino a mezzogiorno, domani. L’impotenza e il dolore per l’impossibilità ci tiene, adesso, a distanza, rintanati nei nostri rifugi in gran parte coi piedi allagati. Mentre scrivo stiamo così. Ma basterà il primo spiraglio d’asciutto per cominciare la lotta e ricostruire quello che la strega-alluvione ha tentato di cancellare in città.
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