Pandemia, terremoti, guerra e ora alluvione. La vita dell’uomo sembra appesa a un filo di ragnatela. “Mi hai gettato nel fango: sono diventato polvere e cenere, io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta”, verrebbe da gridare con il Giobbe biblico che si rivolge a Dio in nome dell’uomo, una creatura che Lui ha voluto (Gb 30, 19-20).



Qual è il significato storico di quanto sta accadendo e quale insegnamento ne possiamo trarre perché da adulti possiamo guardare i giovani negli occhi senza nasconderci dietro gli elogi alla loro pronta generosità? Qualcuno potrebbe ribattere: nessuno. Non ci sarebbe alcun senso in tutto ciò perché la natura matrigna scherza con l’uomo. Non ragiona inoltre, la natura, ma si affida al caso, va dove vuole e dove le conviene. Che l’uomo si salvi o meno è solo questione di fortuna, la quale a sua volta, direbbe Machiavelli, “Assomiglia ad fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici…ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodochè crescendo poi, o egli andrebbe per un canale, o l’impeto suo non sarebbe sì licenzioso, nè sì dannoso”. E purtroppo neanche gli argini e gli strumenti di contenimento sono bastati nella circostanza dell’alluvione in Romagna.



Proviamo a riprendere la questione da un’altra ottica, allargando lo sguardo alla storia dell’uomo, superando per quanto possibile l’impatto sull’esistenza dei singoli delle impressioni immediate e legittime. Che senso può avere questa storia, la storia che stiamo vivendo e che ci scorre davanti agli occhi? Ancora una volta qualcuno potrebbe rispondere: nessuno. Se l’uomo non è altro che un grumo della natura maligna, che “non ha al seme dell’uom più stima o cura ch’alla formica” (Leopardi, La ginestra), la storia che elabora il disegno del passato non ha a sua volta alcun senso, se non quello tracciato dai potenti a danno degli umili e dei vinti. Sarebbe poco più che una “favola raccontata da un’idiota, tutta piena di strepito e furore, che non vuol dir niente” (Shakespeare, Macbeth).



Questa sarebbe la storia: un sogno, un’illusione. Una ideologia. Qualcosa da buttare come un oggetto inutile, tanto più in circostanze come questa, in cui dopo avere pianto sui danni e le vittime non ci resta altro, pensa qualcuno, che la polemica politica sulle responsabilità. Eppure è profondamente ingiusto non usare la ragione e non rendersi conto che la realtà è fatta di più sfaccettature. La storia è vita e racconto. La vita non dipende da noi ma il racconto sì, e può essere un potente strumento di collaborazione alla ricostruzione dell’umano. L’imprevisto spalanca sempre la soglia di un abisso, ma possiamo non caderci dentro a patto che scegliamo lo spartito giusto per comprenderlo e imbrigliarlo per certi versi (“La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli”, Montale).

La battaglia sul senso della storia è giocata tra due eserciti impari, al primo sguardo. Da una parte gli incursori del nichilismo, pronti a sbaragliare; dall’altra i difensori della positività dell’esistenza, nonostante tutto. Ma, attenzione, le parti si possono invertire. La storia infatti (historia rerum gestarum) si presta a diversi livelli di lettura (Ricoeur). C’è l’apparenza e ciò che si nasconde dietro il velo dell’arazzo drammatico squadernato davanti ai nostri occhi. C’è l’apparente potenza del nulla e il dito di Dio (Cardini). Bene, cosa ci mostra oggi questo “dito di Dio”?

Primo, che dobbiamo ricordarci di chi siamo e da chi siamo stati salvati. Siamo stati salvati, occorre riconoscerlo, da altre devastazioni, tragedie, guerre. Se siamo qui a raccontarlo è perché abbiamo seguito nel passato, più o meno recente, il filo dell’umano che qualcuno ha incarnato in modo più evidente per tutti. Siamo usciti dalle invasioni di popoli stranieri, abbiamo costruito e ricostruito, c’è un continuo “rinascimento” alle nostre spalle, siamo usciti all’aria aperta dopo la sbornia dei programmi sull’uomo che tendevano alla sua sudditanza ad opera di partiti pseudo-rivoluzionari, l’umano in noi ha resistito, più forte e più capace ogni volta di ricominciare nel presente.

Guardiamolo il presente, non tappiamoci gli occhi. Rinasceremo con la domanda sul presente e lo sguardo volto anche al futuro. Aspettiamolo il futuro senza timore, immaginiamolo. Con una speranza che nasce dalla certezza che siamo compagni sulla stessa strada. “Di che reggimento siete fratelli?” (Ungaretti), viene da chiedere a chi armato di badile e stivali o di un semplice straccio aiuta gli altri a sgomberare le macerie delle case.

Siamo fratelli, appunto. Parte di uno stesso popolo che guarda avanti perché, e solo perché ha un passato buono, ha delle radici alimentate dalla fede, nutrite dalle cose buone che i vecchi hanno raccontato ai giovani, coltivate negli orti dove insieme alle fragole sono cresciute, a ancora cresceranno, le conoscenze tra vicini, fatte di attenzione, di ascolto, di comprensione per il bisogno. Impregnate dello sguardo che il Creatore che si è fatto Uomo ha per ogni uomo, anche se sepolto dal fango. Proprio dal fango, in fondo è cominciato tutto. È cominciata lì la Creazione.

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