La categoria dei bancari è stata più volte protagonista di innovazioni importanti sul piano contrattuale e, in particolare, del welfare, tanto che nel 2013 – in piena crisi economica, quando Abi diede la famosa quanto inaudita disdetta – si diceva che quello dei bancari fosse il contratto più sindacalizzato, e quindi il più pesante per le imprese.



Dieci anni dopo, fortunatamente non si parla di disdette, ma, piuttosto, di un rinnovo che si presenta storico: 435 euro (lordi) di aumento, visti i tempi che corrono, sono qualcosa di straordinario, tanto da generare preoccupazione all’interno del sistema imprese, nonostante i profitti resi noti in queste ore (Enel +5 mld euro, Poste +1,5 mld euro, Brembo +231 mln euro, ecc.).



Ricordiamoci, peraltro, che nel marzo scorso Carlo Messina (Ceo di Banca Intesa) aveva annunciato – in ragione di un utile di 7 miliardi di euro – un aumento contrattuale di 400 euro, ritirando la delega alla rappresentanza sindacale conferita ad Abi. Lo stesso Messina, il 27 ottobre scorso a Brescia in occasione di un evento pubblico, ha dichiarato che ai suoi dipendenti i 435 euro sarebbero stati garantiti in busta paga già dall’ultimo trimestre di quest’anno.

Che il settore abbia prodotto ricchezza negli ultimi anni è un fatto noto. La domanda è se questo sia il solo fattore che porta oggi il sistema a distribuirla in modo così profittevole per i lavoratori e per il loro potere d’acquisto. Chi scrive pensa di no. Vi sono, ovvero, altri fattori.



Negli ultimi due anni, mentre il settore generava i suoi profitti, sono aumentati i costi di beni e servizi, e si è ridotto notevolmente il valore del potere d’acquisto. L’inflazione è tornata a salire a causa dello sdoppiamento della globalizzazione (decoupling) e della conseguente crisi delle materie prime. Intanto, l’Ue spinge per la Transizione digitale, energetica ed ecologica.

Siamo dentro una stagione contrassegnata non solo dall’aumento dei prezzi, ma anche dai costi crescenti della trasformazione dell’industria. La rivalutazione del potere d’acquisto è indispensabile per la tenuta e lo sviluppo del sistema economico. Gli obiettivi della Grande Transizione possono essere raggiunti solo se l’economia torna a girare, se crescono lavoro e salari.

In buona sintesi, è iniziato un ciclo economico in cui il rafforzamento del potere d’acquisto sarà fattore di successo. E il sistema bancario, quello più legato al grande capitale, ne è molto consapevole. Tanto che ha deciso di “dare la linea”, come si dice in gergo sindacale.

La pandemia irrompe su scala mondiale in un momento di crescita modesta in cui, nel triennio precedente (2016-2019), l’attività produttiva è apparsa in rallentamento in tutte le principali aree del mondo. In Europa lo chiamiamo “triennio della crescita debole”: in particolare, la Germania ha ridotto il suo passo che dettava i tempi all’economia europea. Nel mentre, tuttavia, Cina e Usa si sono mantenute su livelli comunque alti (+6,5/7% media annuale Cina, +3,5-4% Usa).

Il rallentamento degli scambi è, da una parte, dovuto a ragioni congiunturali e, dall’altra, al venir meno delle condizioni strutturali che hanno favorito l’esplosione del commercio internazionale negli anni della globalizzazione. A un certo punto, la spinta dell’off-shoring si è esaurita.

Il ridimensionamento del commercio mondiale non coincide soltanto con l’inizio della crescita debole in Europa ma anche con la nuova morfologia della globalizzazione, dal multilateralismo al regionalismo: i grandi mercati tendono a ridefinirsi in senso macroregionale attorno alle grandi piattaforme produttive (Usa, Europa e Cina), con la particolarità che mentre Usa e Cina hanno un mercato interno molto coeso, quello europeo è piuttosto frammentato, essendo sempre prevalsi gli interessi contrastanti e, di conseguenza, la facilità di penetrazione di aziende e prodotti americani e cinesi.

Il passaggio dall’interdipendenza multilaterale al regionalismo aggregato porta le grandi potenze a pianificare la loro autonomia che per l’Europa – da un punto di vista industriale ed energetico-– è una sfida vera. Qui trovano fondamento la Grande Transizione e il suo manifesto programmatico: il Green Deal.

Non si tratta soltanto di trasformare le filiere produttive per ridurre la cosiddetta “impronta ecologica”, la Grande Transizione è, a tutti gli effetti, una sfida per un’economia più competitiva in un nuovo modello di sviluppo, non soltanto per effetto delle innovazioni tecnologiche che naturalmente accrescono i livelli di efficienza e produttività (digitale ed energia in particolare), ma anche in ragione della riconfigurazione della globalizzazione in atto.

L’ambizioso programma dell’Ue, che trova accelerazione nei mesi di aprile e maggio 2020, ha tre macro-obiettivi, puntando sui quali l’Europa sceglie di abbandonare l’austerity a favore di una politica economica espansiva e di un principio di debito comune: 1) consolidamento del mercato interno; 2) innovazione digitale ed energetica; 3) contrasto alla crisi climatica.

Il Green Deal ha la finalità di consolidare il mercato europeo, innovando le filiere produttive e rendendo l’economia locale più autonoma dalle altre piattaforme. E di consegnare l’Europa all’energia pulita e alla carbon neutrality (2050). Le parole di Angela Merkel in occasione dell’accordo del Consiglio europeo sul Next Generation Eu, rendono l’idea di quanto questo nuovo indirizzo sia determinante per l’Ue: “Lo stato nazione non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene”.

Il futuro della nostra economia dipende, infatti, dalla nostra capacità di consolidare la domanda interna. La stessa cosa stanno facendo gli Usa, con i dazi e con una politica sempre meno attratta dalle importazioni; anche la Cina, con il suo programma della “Prosperità comune”, si è data il medesimo obiettivo, anche se per i cinesi questo significa portare lo sviluppo dove non c’è.

La Cina ha costantemente accresciuto la sua economia esportando in Europa. Oggi Xi Jinping sa bene che il consolidamento del mercato europeo rallenterà le esportazioni cinesi. Quindi, ha bisogno di espandere la domanda interna: ecco perché vuole rendere “comune” la prosperità, ovvero vuole portarla oltre la regione di Pechino e Shanghai. È qui che sono le grandi industrie cinesi. Ed è in questa regione che vivono circa 300 milioni di cinesi. La restante popolazione – quasi 1 miliardo di persone – vive nell’entroterra, dove ancora c’è civiltà millenaria, siccità, problemi idrici ed energetici, povertà, crisi demografica… vedremo cosa ne sarà del gigante cinese nei prossimi 10-20 anni.

Oggi, per quanto gli scambi siano tornati su livelli pre-pandemici e per quanto sia Emmanuel Macron sia Janet Yellen dicano che “l’Occidente non si può permettere un decoupling radicale con la Cina”, la tendenza è quella di una lenta quanto inevitabile riconfigurazione dei mercati. Non è casuale che, proprio in questa fase, si sia registrato l’allargamento dei Brics. Cina e Russia, in particolare, stanno costruendo la loro globalizzazione. L’Europa deve consolidare il suo mercato e i suoi rapporti con gli Usa. Ma tutto questo ha costi fisiologici (il prodotto locale è più caro rispetto a quello di importazione), a cominciare dai salari. E il salario minimo non è la soluzione.

Il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi ripete che i salari possono crescere solo se cresce la produttività. Ma la produttività aumenta in presenza di investimenti delle imprese. Qualcosa non torna.

Twitter: @sabella_oikos

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI