Caro direttore,
nei giorni scorsi la Camera ha dato il via libera a una commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi, avvenuta otto anni fa a Siena. L’allora responsabile della comunicazione di Mps cadde dalla finestra del suo ufficio in circostanze mai del tutto chiarite. Le indagini giudiziarie hanno archiviato il caso come “suicidio”, ma quelle condotte della famiglia Rossi e da numerosi giornalisti investigativi hanno accumulato elementi a supporto dell’ipotesi di omicidio. Nel frattempo Mps non ha fatto che scivolare sulla china del dissesto: due aumenti di capitale e infine un salvataggio pubblico da 5 miliardi nel 2016 non hanno stabilizzato il gruppo. Rocca Salimbeni – anche su pressing Ue – è tuttora alla disperata ricerca di un partner-salvatore in tempi brevi.
Il caso Mps è a sua volta sul tavolo di un’altra commissione d’inchiesta: la bicamerale-bis sulla crisi bancaria (dopo la bicamerale Casini nel 2017-18), in corso da più di un anno sotto la guida della senatrice M5s Carla Ruocco, peraltro a riflettori quasi spenti. Comunque: due (anzi: tre) commissioni d’inchiesta per una morte sospetta e una catastrofe nazionale di poco superiore, finora, a una decina di miliardi.
Nel frattempo, naturalmente, la giustizia penale non ha atteso e già diversi processi sono giunti a diversi livelli di sentenza: è stato condannato l’ex presidente Giuseppe Mussari, ma non è stato risparmiato – anche se solo in primo grado e non per il dissesto – nemmeno il successore Alessandro Profumo, chiamato a Siena per raddrizzare la nave. La giustizia penale si è mostrata certamente più rapida di quella “politica”, ma non senza contraddizioni o lacune. E comunque con poco impatto sugli sviluppi della crisi bancaria, a Siena o altrove (ma allo stesso è avvenuto per la commissione Casini). Nel frattempo i risarcimenti previsti dal governo per i risparmiatori danneggiati dai crack bancari sono stati oggetto di rinvii continui.
È passato intanto un anno dall’inizio di una catastrofe globale che ha provocato finora in Italia 108mila morti certe e una distruzione del Pil stimata dall’Istat nel 9% (più di 155 miliardi), quindi un aumento del debito pubblico dal 131% al 155% del Pil e una perdita progressiva di 800mila posti di lavoro. La pandemia Covid ha avuto il suo “ground zero” lontano dall’Italia e non è affatto escluso che all’origine vi siano stati errori colposi (qualcuno sospetta anche dolosi). Ma era accaduto così anche per la crisi finanziaria del 2008, originata a Wall Street, anche in quel caso dall’effetto combinato di comportamenti come minimo spericolati, quando non apertamente illeciti. Tuttavia nessuno degli accusati per il crack Mps ha potuto appellarsi a quelle responsabilità “esogene” di fronte alle accuse relative alle loro scelte specifiche di amministratori di una banca improvvisamente colpita da una crisi finanziaria globale. Altre banche italiane, fra l’altro, hanno mostrato ben differenti capacità di resistenza al “contagio” della finanza “tossica”.
Alcune procure italiane, per la verità, hanno aperto vari fascicoli d’inchiesta sulla gestione dell’epidemia in Italia. Il più importante è certamente quello della Procura di Bergamo: competente sulla tragedia-simbolo della Val Seriana nel marzo 2020. Ma ci sono inchieste aperte su diversi aspetti della gestione della crisi da parte della Regione Lombardia, della Regione Lazio, dell’ex commissario straordinario Domenico Arcuri. Sono finiti nel mirino camici e “mascherine di vip”, assembramenti e vaccini.
Sono percorsi giudiziari accomunati dal procedere in modo carsico e in ordine sparso. Quello avviato a Bergamo – rivolto principalmente all’operato del governo – è parso in una prima fase oggettivamente attento a non gettare ombre indebite sull’esecutivo Conte, nella gestione quotidiana dell’emergenza. Una preoccupazione oggettiva che sembra rimanere viva allorché M5s, Leu e Pd continuano a far parte di una maggioranza di unità nazionale. Quando il ministro della Salute, Roberto Speranza, e quello dell’Interno, Luciana Lamorgese, sono tuttora in carica. Quando l’ex premier Giuseppe Conte è candidato alla guida di M5s. È vero che, nel frattempo, il leader della Lega Matteo Salvini ha rimediato un ennesimo rinvio a giudizio per le decisioni prese come vicepremier-ministro dell’Interno sul fronte degli sbarchi migratori.
Ma nessun Paese Ue ha finora messo sotto accusa suoi governanti o suoi burocrati per come hanno affrontato e stanno ancora affrontando la pandemia. I giudizi sono stati affidati alla democrazia politica, laddove le elezioni si sono potute tenere. Il presidente Usa Donald Trump non è stato rieletto, la Cdu di Angela Merkel rischia di perdere il potere dopo 16 anni. In Israele Bibi Netanyahu ha ottenuto un’altra vittoria ai punti, utile fors’anche ad allontanare la pressione di alcune inchieste giudiziarie per corruzione. In Olanda il premier uscente Mark Rutte è stato confermato per la terza volta, nonostante il Paese mostri sempre maggior insofferenza verso i lockdown. In Francia l’emergenza-Covid è stata intanto l’occasione per mandare a processo l’ex presidente Nicolas Sarkozy: per fatti di corruzione internazionale vecchi di una decina d’anni.
In Italia un precedente lontano – ma tutt’altro che inservibile – resta quello di Caporetto. Nell’autunno 1917, dopo lo sfondamento austriaco del fronte friulano, nell’arco di due settimane cambiarono sia il premier (Paolo Boselli fu sostituito da Vittorio Emanuele Orlando) sia il comandante supremo (Armando Diaz al posto di Luigi Cadorna). Appena due mesi dopo – a guerra ancora in corso e lontano dall’esito – fu insediata una commissione d’inchiesta: “per Dpcm” (regio decreto e su proposta del premier). La commissione – un po’ tribunale militare, un po’ organismo parlamentare – era composta da sette membri: quattro generali (fra cui il presidente), un senatore regio e due deputati eletti. I lavori procedettero intensi (furono ascoltati più di mille testimoni) anche se completamente secretati. Nel giugno 1919 la commissione consegnò al premier Francesco Saverio Nitti la sua relazione finale e le raccomandazioni.
Pressoché tutti i generali inquisiti (a cominciare dallo stesso Cadorna) erano già stati allontanati dai comandi attivi e furono collocati “a disposizione” o a “riposo”: ma null’altro. Un solo generale – Pietro Badoglio – era stato nel frattempo promosso numero due di Diaz e quindi capo di stato maggiore nel 1919. Non fu oggetto di alcun provvedimento e anzi la relazione tacque quasi del tutto sulle sue responsabilità, che gli storici hanno poi giudicato centrali a Caporetto. Badoglio fece in tempo a fare il premier nel 1943, dopo l’estromissione di Benito Mussolini e al fine principale di firmare l’armistizio. Poi uscì definitivamente dalla scena politica italiana. Gli succedette – a capo del “governo di Salerno” – Ivanoe Bonomi: il ministro della guerra del governo Nitti che tutto sapeva della “commissione Caporetto”.
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