Il 2024, che già si rivela ricco di possibili novità per le elezioni europee e americane, sta segnalando i bradisismi che preannunciano un terremoto televisivo dopo il “caso” Amadeus: la nascita del terzo polo della tv generalista. Fatto che ai più non dice molto, dato che per il pubblico, guardare il programma del proprio beniamino su una rete o su un’altra non fa molta differenza.



Gli esperti di tv un tempo affermavano che un canale coincide con la memoria storica del telecomando: quelle posizioni corrispondevano alla sicurezza di trovare una tipologia di contenuti e programmi ben definita, un vero e proprio “brand”, per dirla all’inglese. Ora invece sta avvenendo che il pubblico, anche quello più anziano, si è abituato a smanettare con lo smartphone, e non ha problemi a sintonizzarsi su canali a due cifre come il 20 o il 24 sui quali è possibile trovare spesso buoni film. E ha imparato a seguire i format o i personaggi diventati “brand” essi stessi, piuttosto che un canale che non possiede più un’identità vera e propria.



Lo ha dimostrato Fabio Fazio con “Che tempo che fa”, che recentemente è riuscito a fare sul canale 9 (Discovery) il 10% di share senza ospiti di particolare rilievo. Forte di questi risultati, il Gruppo WarnerBros Discovery (9) con l’ingaggio di Amadeus ha scatenato una campagna acquisti per poter contare su diversi assi per giocare la partita della tv generalista. Oltre a una serie di canali in chiaro e a storici Centri di produzione come i Warner Bros Studios, possiede la casa di produzione HBO che ha realizzato alcune delle serie tv di maggior successo mondiale, senza dimenticare la Cnn ed Eurosport con il ricco carnet dei diritti sportivi delle olimpiadi.



Chi rischia di più, in questa rinnovata corsa a tre alla conquista dell’audience è la Rai. Indebolitesi nel tempo RaiDue e RaiTre, perdere una colonna del palinsesto di RaiUno come Amadeus (in partenza per la Nove) che con “Affari Tuoi” sbaraglia ogni concorrenza, non costituisce certo una bella notizia. Per ora si parla solo di lui, ma sarebbero guai grossi se a migrare fosse anche il format.

Ma i problemi che si trova a ereditare l’attuale D.G. della Rai Giampaolo Rossi, che è anche l’Amministratore delegato destinato a prendere il posto di Roberto Sergio, vengono in gran parte da lontano. Per diverse decadi in Rai hanno dominato militanti di sinistra: ruoli di comando, posti di rilievo, appalti di cinema e fiction sono sempre andati al loro mondo di riferimento. Che ha potuto avere a disposizione per molti anni una palestra superattrezzata in cui guadagnare ed esercitarsi. Da questa palestra la destra è sempre stata esclusa quasi del tutto. Per cui ora che si trova a prendere il potere si ritrova senza atleti da mettere in gara.

Anche il personale politico/amministrativo non è molto allenato, motivo per cui Rossi si trova a giocare una difficile partita senza carte di rilievo in mano. Oltretutto più che un manager è un intellettuale molto colto (lo posso dire con cognizione di causa, lui mi raggiunse come Presidente della società partecipata Rainet, che io gestivo come Amministratore delegato, e abbiamo lavorato fianco a fianco per diversi anni). Lo posso immaginare tra l’incudine di imperative richieste di carattere politico e il martello di un esercito sbandato senza colonnelli e quadri intermedi ben preparati. Per non parlare di risorse finanziarie sempre più scarse.

Oltretutto va detto che nel duopolio nato dalla legge Gasparri vigeva una sorta di pax armata, in cui la Rai vinceva sull’audience totale, mentre Mediaset vinceva sul target più giovane, maggiormente interessato agli acquisti e quindi alla pubblicità. In una guerriglia fra tre soggetti, ogni accordo salta perché aumentano le variabili incontrollabili.

Leggendo i più diversi articoli di commento a questa faccenda, colpisce poi che nessuno si preoccupi dell’assenza di un piano editoriale che disegni il ruolo del Servizio Pubblico nei prossimi anni, ma solo di questo o quel personaggio in procinto di abbandonare la nave in pericolo, o del prossimo direttore artistico di Sanremo al posto di Amadeus.

Non capisco nemmeno tutto il peana che si intona intorno ad Amadeus, che è certamente ottimo per fare “il bravo presentatore” di frassicana memoria. Quanto a dirigere tutto l’intrattenimento è lecito nutrire qualche dubbio, anche perché il pensiero unico “woke” di cui la Nove era intrisa ai tempi della Soldi – da lei tollerato e favorito anche in Rai e di cui Amadeus è un convinto aedo – sembra essere agli sgoccioli, come dimostra l’emorragia degli spettatori dei film Disney, causa l’irritazione delle famiglie per i troppi personaggi “fluidi”.

È noto che nelle fasi di accelerazione sono le imprese più grandi a muoversi con difficoltà: se hanno un qualche fondamento le voci che parlano addirittura dell’unificazione in una syndication di 9, La 7 e 8 (Sky) la faccenda si complica terribilmente. E diventa urgente che la politica si interessi del presente e del futuro del Servizio Pubblico, invece che pensare solo ai regolamenti elettorali in vista delle Europee.

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