La crisi economica del 2008 e la pandemia da Covid-19 sono due turnaround decisivi per il processo di globalizzazione. È dentro questo cambiamento che si affermano l’intelligenza artificiale, i big data, le grandi piattaforme, l’industria 4.0… È quella che in altri termini viene definita “dematerializzazione dell’economia” che, da una parte, sta a indicare il minor consumo di materie prime (anche grazie al riciclo): oggi, per esempio, in uno smartphone vi sono il telefono, la calcolatrice, la macchina fotografica, la videocamera, la radiosveglia, il registratore, il navigatore satellitare, la bussola, il barometro, ecc.; dall’altra, vi è la correlata erosione di posti di lavoro nell’industria fordista, in virtù di meno oggetti prodotti – tutto ciò che vi è nello smartphone è naturalmente prodotto in minor misura – e, anche, in ragione di ciò che fanno le macchine al posto delle persone.



Non solo, dentro questo cambiamento, l’industria è sempre più servizio. Se pensiamo ad esempio al settore dell’auto, al di là dei servizi finanziari sempre più sviluppati nel senso dell’accesso al bene e non del possesso, vi è anche la mobilità che cambia in funzione di car sharing e car pooling. L’industria tradizionale, quella fordista (ben rappresentata dal carbone e dall’auto), sta sempre più accorciando il suo perimetro; è su questa base che il sindacato ha preso quella forma che conserva attualmente.



Oggi i nuovi saperi e le nuove tecnologie stanno profondamente cambiando il lavoro, proteso a convergere – in modo irreversibile – con la sua forma di lavoro a distanza. È una nuova morfologia che apre interrogativi profondi sulla dimensione collettiva, quella che è stata protagonista dell’industria fordista.

Non è ovviamente un dibattito nuovo, è tuttavia una riflessione che si è riattualizzata sulla base di alcuni avvenimenti recenti. Il primo è la nascita del sindacato in Google (gennaio 2021); il secondo è storia di questi giorni: nel grande stabilimento di Amazon in Alabama, i lavoratori votano contro la costituzione del sindacato interno. Di seimila lavoratori, hanno votato più della metà e il 70% di loro ha votato contro. 



Qualcosa di strano deve essere successo: è vero che l’azienda ha offerto ai lavoratori un salario due volte superiore al minimo legale, oltre alla copertura assicurativa sanitaria, ma l’estate scorsa – quando lo stabilimento è stato inaugurato – erano state raccolte duemila firme per la costituzione della rappresentanza sindacale interna. La questione non pare dunque chiusa.

Gli episodi di Google e Amazon sono tra loro contrastanti e ci danno indicazioni diverse. Nel primo caso, quello di Google, il neonato sindacato dell’AWU (Alphabet Workers Union) ha raggruppato oltre 400 dipendenti, tra ingegneri e impiegati ed è il primo in una delle aziende più importanti della Silicon Valley, area completamente differente dall’Alabama, cuore del sud americano. È sicuramente una situazione più favorevole a entrare nei processi aziendali, tant’è che le principali rivendicazioni di AWU non sono di natura economica. Inoltre, nella vicenda di Google vi è una particolarità importante: AWU è una novità assoluta, annunciata dopo un anno di lavoro e di relazioni segrete tra i lavoratori. Le persone si sono associate perché convinte del valore del loro organizzarsi, cosa che fa e farà la differenza.

Gli Usa, nell’area Ocse, sono il Paese che registra il livello più basso di copertura dei contratti collettivi (13%); nell’Ue, la situazione è diversa (Italia 85%, Francia 92%, Germania 61%, Spagna 73%, UK 32%, ecc.). Il sindacato è tuttavia davanti alle medesime sfide, in Europa sarà aiutato da una cultura tendenzialmente più burocratica di quella americana. Tuttavia, per ritrovare protagonismo la dimensione collettiva del lavoro ha bisogno di tornare a generare valore.

Twitter: @sabella_thinkin

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