Se avete un pomeriggio libero e potete fare due passi tra i sentieri di campagna, accanto alle spighe di orzo selvatico troverete i forasacchi. Si tratta di un tipo di avena con dei lunghi gambi vuoti all’interno. Se avete più di 50 anni, ricorderete che questi gambi venivano normalmente usati nei bar: erano le cannucce con cui si beveva qualunque bevanda. Poi è passato il tempo. E le cannucce dei forasacchi sono diventate demodé, sostituite da quelle di plastica. Tonnellate di cannucce; e alla fine si sono accorti che anche loro inquinano; e qual è stata la “soluzione finale”? Tornare alle pagliuzze dei campi? Manco per sogno: sostituire quelle di plastica con quelle di carta; che oltre a provenire da processi inquinanti e disboscanti, danno una sensazione orrenda in bocca.



Tutto ciò ci introduce ad un tema: si vuole disinquinare con gli stessi mezzi con cui si produce l’inquinamento. Non porterà a nulla di buono. La moda del mondo anti-inquinamento ha un solo slogan: “fermatevi, altrimenti scompariamo”. E un piano sottostante: sostituire l’inquinante più palese con qualcosa più green (ma che non garantisce l’ordine ecologico perché viene da processi tecnologici). Si evitano disastri come in Emilia-Romagna costruendo tecnologicamente più apparati di protezione dalle inondazioni? Si disinquina il cosmo aumentando gli inceneritori?



Qual è l’inghippo? Che siamo circondati da un ecologismo “della paura” invece che da un ecologismo “del rispetto”. “Abbiate paura di chi vi fa fare scelte sulla base negativa della paura e non su quella positiva della volontà”, sembra potersi così riassumere il senso del libro The culture of fear. Why Americans are afraid of the wrong things di Barry Glassner.

L’ecologismo della paura è quello che teme la fine del mondo; un po’ ha ragione, ma la conseguenza logica del suo presupposto è che, se non si arrivasse a conseguenze catastrofiche, si potrebbe consumare, inquinare, sprecare, sciupare ogni cosa senza remore. L’ecologismo del rispetto invece è quello che vede l’importanza di ogni cosa; che intuisce, magari senza saper dire perché, che tutto ha un senso e un posto, e che sciuparlo è un’ignominia. Che non si butta nel cestino il pane solo perché non hai più fame.



Una volta Luigi Giussani, per spiegare la parola peccato agli studenti, tirò fuori dalla cattedra un bellissimo mazzo di fiori… e lo strappò in tanti brandelli. Voleva spiegare che il peccato non è ciò che infrange una regola, ma ciò che sciupa una bellezza. Nulla di più chiaro.

Martin Heidegger spiegava che l’uomo non domina né è schiavo della tecnologia; semplicemente la tecnologia lo ha cambiato ontologicamente. La tecnica ci piace, l’amiamo; la tecnologia no. Perché è la tecnica trasformata in ideologia. La tecnologia è mentalità calcolante: ne traiamo tanto bene, ma anche una perdita: diventiamo calcolanti anche noi. Heidegger aveva ragione: la tecnologia è così bella che vezzeggia e paradossalmente impoverisce. E questo deve spaventarci.

La tecnologia non rende schiavi, assimila perché è bella e perché produce, produce più dell’uomo. Porta l’umano nell’ultra-umano, supera la ragione (che è l’approccio alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori) con la “ratio”, cioè col misurare tutto e accettare solo quello che è misurabile, quello che è comprabile. Accetta la natura solo se è trasformabile. Perché non accetta la natura come tale. Non accetta le mele, ma ama le caramelle al sapore di mela. E chi combatte la mentalità della produzione inquinante con un altro tipo di produzione anti-inquinante, con il calcolo a cosa inquina meno, è perlomeno ingenuo.

L’inquinamento si batte con la bellezza. Con l’amore al territorio, alle colline del Chianti, al lambrusco, al taleggio, ai tramonti del Gennargentu, ai carruggi di Genova e ai bei locali dove prendere un aperitivo a Milano. Chi protesta contro l’inquinamento e non conosce (e non ama) altra luce che quella bluastra del laptop fa sorridere amaro. In un sistema di ideologia tecnologica globale, sono pochi a contestare; e quei pochi se la prendono simbolicamente non con le multinazionali ma con la bellezza dell’arte classica. Semplicemente perché le multinazionali che producono i loro optional e gadget sono implicitamente parte della vita loro e di tutti, ma l’arte è semplicemente estranea: conta l’utile, non conta il bello; quindi diventa un obiettivo da additare come inutile e negativo.

Voler combattere l’inquinamento dei prodotti e subprodotti della tecnologia con altra tecnologia che magari mangi quei subprodotti significa fare un chiodo-scaccia-chiodo che non funziona. Perché l’inquinamento non finisce ma si moltiplica. Occorre imparare il rispetto.  Come scrive Max Liboiron nel suo Pollution is colonialism (Duke University Press 2021), “In primo luogo, l’inquinamento non è una manifestazione o un effetto collaterale del colonialismo, ma piuttosto una messa in atto delle relazioni coloniali in corso con la Terra. Cioè, l’inquinamento è meglio inteso come la violenza delle relazioni territoriali coloniali piuttosto che come un danno ambientale, che è un sintomo di violenza. Queste relazioni coloniali sono riprodotte anche attraverso la scienza ambientale e l’attivismo ben intenzionati”. In altre parole, l’inquinamento è figlio di una mentalità calcolante che ormai domina il mondo e la tecnologia è il suo specchietto per allodole. Che crea sprechi per produrre quello che vogliamo noi. A prezzo di cosa, poco importa. La tecnologia-mentalità è diventata il grande livellatore sociale, come spiega Umberto Galimberti: ricchi e poveri sono uniti nella brama di possedere tecnologia; che è diventata anche l’unico metro per decidere se e dove allocare risorse e investimenti, e verso quali fini (fruttuosi ma mai belli) fare politica.

Perciò, le inondazioni possono venire da dissesti umani o da cambiamenti climatici in cui l’uomo non è senza colpe, immagine di un uomo che ha cambiato natura e si è messo a produrre per il fine di produrre, a ricercare “l’ultimo modello di” senza averne nessun bisogno; ma non credo che la risposta sia una decrescita felice alla Serge Latouche. Perché questa è una bella utopia, utopicamente irrealizzabile: nessuno abdicherebbe alla benzina o al pc per dovere. Neanche, credo, tanti che vogliono urlando salvare il mondo. Ma forse per l’incontro con la bellezza, sì.

Occorre il rispetto, fare una passeggiata in campagna e vedere quanto sono belli i forasacchi, l’orzo murino, e le margherite; chissà se guardandoli oggi e domani, ci verrà in mente che quello che sprechiamo, sciupiamo, sprechiamo, pecchiamo (noi e i nostri governi) è veramente indecente.

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