Caro direttore, il problema sono le emissioni di anidride carbonica, il riscaldamento del pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai, l’utilizzo dei combustibili fossili, la transizione energetica, le fonti rinnovabili…

Un contributo alla diffusione di queste affermazioni, peraltro non nuove, è stato fornito da Greta Thunberg, diventata in poco tempo regina degli influencer con argomentazioni molto semplificate: le risorse del pianeta sono limitate e la crescita economica, della popolazione e dei consumi non può andare avanti all’infinito, altrimenti il pianeta non avrebbe futuro. Alcune affermazioni, sono condivisibili (la sensibilizzazione sulla “finitezza delle risorse”), altre (“interi ecosistemi stanno collassando”) possono contribuire a costruire un ambientalismo dogmatico dell’anti-antropocentrismo e trascurano, ad esempio, i divari di sviluppo economico tra gli Stati, i problemi della povertà, della fame, dell’istruzione, della sanità e i benefici del progresso tecnologico.



In sostanza, Greta Thunberg fa bene ad auspicare un mondo migliore per le generazioni future, ma trascura l’evidenza del miglioramento costruito dalle generazioni passate che non si può escludere a priori per gli anni a venire. Se l’uomo in quanto dotato di intelligenza è consapevole di questi problemi saprà trovare soluzioni efficienti e responsabilizzanti.



Tuttavia, basta scorrere i social, i giornali e perfino pubblicazioni accademiche, per scoprire come molte affermazioni, che vengono ripetute in maniera acritica, sono accettate come vere. E’ difficile smontare luoghi comuni che a lungo andare diventano una sorta di ideologia dogmatica.

In questa direzione può essere utile precisare alcuni concetti utilizzati spesso in modo improprio, anche per definire meglio i problemi e le proposte di soluzione da trattare nel Recovery fund.

Il primo passo è distinguere (e scegliere) tra crescita e decrescita economica. La prima riguarda gli aspetti quantitativi dello sviluppo, misurati da indicatori macroeconomici (Pil, reddito pro capite, investimenti eccetera) e trascura la misurazione del benessere, la qualità della vita e dell’ambiente.



La seconda riguarda la riduzione e il contenimento della produzione e dei consumi a favore di un riequilibrio del rapporto tra l’uomo e la natura, alimentato da un ritorno al “locale”.

Se nemmeno la crescita economica, già debole e tendente a zero, assicura l’aumento dell’occupazione e dei redditi, mettendo a rischio il finanziamento di beni e servizi pubblici, nonché delle politiche redistributive, figuriamoci la decrescita (in)felice. La situazione attuale (post Covid) dovrebbe indurre un’inversione di tendenza nelle politiche economiche, ad esempio a favore degli investimenti in infrastrutture, istruzione e sanità più urgenti. In questo senso dovrebbe andare il Recovery fund italiano, tenendo conto che prima o poi bonus e sussidi finiranno.

Il secondo passo è approfondire alcune questioni dello sviluppo sostenibile. Esso è tale se promuove il miglioramento della qualità della vita e rende compatibile lo sviluppo delle attività economiche (i bisogni della generazione presente) e la salvaguardia dell’ambiente senza compromettere le possibilità delle generazioni future.

Queste affermazioni sottovalutano il fatto che non è possibile lasciare in eredità alle generazioni future la Terra così come l’abbiamo ricevuta perché alcuni effetti delle attività dell’uomo, l’inquinamento dovuto all’immissione di sostanze, l’alterazione di alcuni parametri (ad esempio, la temperatura), il depauperamento di risorse naturali non rinnovabili non saranno annullati. L’uomo ha sempre modificato l’ambiente. In passato il contenimento della pressione antropica si realizzava con le epidemie, la scarsità dei consumi per larga parte della popolazione, le guerre, le emigrazioni verso spazi non umanizzati. Ora lo sviluppo delle tecnologie e dei processi produttivi, il riciclo o recupero ridurranno le esternalità negative, ma non le annulleranno. Non esiste l’efficienza assoluta: non tutto può essere ri-utilizzato.

Il terzo passo è riflettere su cosa è stato fatto e su alcune evidenze. Senza entrare nel merito delle scelte strategiche fatte a livello globale e dei loro esiti, vanno ricordate quelle principali: l’Agenda 21 Rio de Janeiro nel 1992; il Protocollo di Kyoto nel 1997; l’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile che prevede 17 obiettivi (Sustainable Development Goals, SDGs), mentre a livello nazionale e comunitario vanno ricordate le procedure, a prevalente carattere giuridico, della valutazione di impatto ambientale e la valutazione ambientale strategica, senza dimenticare l’aumento delle superfici dei parchi nazionali e regionali e delle aree protette.

Veniamo ad alcune evidenze. Per la deforestazione (la riduzione delle masse forestali diminuisce la possibilità di riassorbimento dell’eccesso di anidride carbonica) va ricordato che non è una pratica generalizzata in tutti i paesi. Nelle aree interne italiane è aumentata la superficie boschiva (dati Fao). L’Italia è sempre più verde, ma con più terreni agricoli abbandonati.

La domanda di petrolio, la più controversa risorsa energetica, è da tempo diminuita ed è aumentata quella di gas, mentre la disponibilità delle riserve è aumentata per entrambi con i miglioramenti nelle tecniche di ricerca e di estrazione. Il paradosso è che l’energia più inquinante, il petrolio, è quella più efficiente dal punto di vista economico. L’uscita dall’era del petrolio non è alle porte, come ha dimostrato la protesta dei gilet gialli in Francia.

Al contrario, un effetto inatteso solo pochi decenni fa è la scarsità delle terre rare, minerali di interesse economico e strategico, cruciali per il settore hi-tech militare e civile e per l’automotive con tecnologie verdi (auto ibride ed elettriche), la cui disponibilità è di fatto un monopolio cinese, in quanto dispone di circa il 70% della domanda mondiale di terre rare. Queste evidenze dimostrano i rischi delle previsioni economiche a lungo termine e quelle relative alle esigenze delle generazioni future.

Le politiche a favore dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile rischiano di restare annunci o diventare politiche simboliche. Sarebbe necessario dare meno spazio alle opinioni personali, a partire da quelle di Greta Thunberg, dei blogger e degli influencer (utili più a sensibilizzare l’opinione pubblica che a prendere decisioni sulle questioni ambientali) e più spazio alle evidenze empiriche fornite dalla ricerca scientifica, agli approfondimenti dei problemi ambientali alle diverse scale territoriali, al confronto tra gli esiti di diverse scelte, al principio di precauzione in caso di decisioni caratterizzate da rischi ambientali e alla valutazione delle numerose tipologie di capacità di carico esercitate dall’uomo sull’ambiente.

Inoltre, bisognerebbe avere più fiducia nelle capacità dell’uomo di trovare nuovi equilibri stabili nel rapporto con la natura.

Nell’attuale situazione di crisi economica il Recovery fund è una grande opportunità, da non sprecare, per costruire programmi con obiettivi di crescita e di sviluppo sostenibile chiari e per finanziare investimenti non solo green. Stando alla larga dai luoghi comuni sull’ambiente e la sostenibilità.