Domenica 20 novembre a Kalongo nel nord Uganda è stato proclamato beato padre Giuseppe Ambrosoli, con una cerimonia svoltasi nel luogo dove ha vissuto per quasi 31 anni, sino alla sua morte nel 1987. Nello stesso giorno, in un affollato Duomo di Como si è svolta una messa di ringraziamento per quanti l’hanno avuto a cuore. Ma chi era Giuseppe Ambrosoli? Perché si è meritato tutto questo?



Nasce come settimo di otto figli nel lontano 25 luglio 1923 a Ronago (Como) dove la famiglia viveva ed aveva fondato una azienda produttrice di miele. L’ambiente cattolico della famiglia e le sue frequentazioni nel gruppo di Azione Cattolica chiamato “Il cenacolo” permisero l’incontro e l’abbraccio con la fede cattolica. Si iscrisse alla facoltà di medicina a Milano, ma nel 1943 dovette interrompere gli studi a causa della guerra. A rischio della vita aiutò ebrei ed ex militari a fuggire alla cattura e ai campi di concentramento riparandoli in Svizzera. Fu obbligato, in qualità di studente medico, ad essere internato nel campo di addestramento di Stoccarda ove si prodigò nell’aiuto dei compagni. Qui, la terribile condizione lo indusse a maturare la vocazione missionaria, come poi riferito da un commilitone. Finita la guerra riprese gli studi e si laureò nel 1949. Si diplomò quindi alla Scuola di medicina tropicale di Londra e decise di entrare nella Congregazione dei Missionari Comboniani.



Nel 1955 fu ordinato sacerdote e l’anno dopo partì per l’Uganda, ove fu assegnato alla missione di Kalongo, sperduto villaggio nel misero e polveroso nord, per lavorare in un primitivo dispensario ai piedi di un suggestivo monte roccioso che si erge improvviso e verticale nella savana. È la Montagna del Vento, nel corso dei secoli luogo di compravendita di schiavi e avorio da parte dei commercianti arabi. Qui padre Giuseppe si dedicò a trasformare il piccolo ambulatorio in un ospedale efficiente ed a fondare la scuola per ostetriche “St Mary Midwifery school”.

Ben presto l’ospedale raggiunse 350 letti e divenne riferimento per un’enorme regione, anche oltre i confini ugandesi. Da qui verso il nord per centinaia di chilometri vi era solo il vuoto ed il nulla. Imparò la lingua Acholi con cui comunicava con infermieri e pazienti. Lavorarono con lui anche suore italiane ed africane e medici che erano attirati dalla sua personalità e professionalità. Prediligeva la chirurgia e nelle sale operatorie di Kalongo, dove diceva di sentirsi come in paradiso, si operava di tutto, dalla cataratta alla frattura di femore, per non parlare delle urgenze che la sala parto forniva con numeri sconosciuti in Italia.



Il dottor Ambrosoli era dotato di una capacità fuori dal comune e quando era in Italia per le ferie estive passava giorni nei diversi ospedali per imparare tecniche e metodiche. La sua giornata iniziava con la messa che celebrava all’alba; quindi l’ospedale lo assorbiva con una intensità che superava la semplice, anche se ammirevole, dedizione e capacità. Il suo servizio era determinato da un senso espresso dalla frase: “Dio è amore e io sono il suo servo per la gente che soffre”, frase iscritta nella sua lapide tombale. Dopo la cena con i confratelli, passava ore scrivendo lettere ai benefattori alla luce di precarie lanterne, nel silenzio della notte africana, quando non era chiamato per un’urgenza notturna. Spesso era sorpreso in preghiera da chi entrava nella grande chiesa della missione. Virtù eroiche che la Chiesa ora ci invita a meditare e contemplare.

Su di lui sono stati scritti libri ed articoli, è nata la Fondazione Ambrosoli, Ong diretta dalla nipote Giovanna che sostiene l’opera di Kalongo, ma padre Ambrosoli ha conosciuto spesso nella sua vita il sapore della sconfitta, della contraddizione. Negli anni 80 la guerra civile ha devastato quelle regioni, costringendo l’ospedale all’isolamento per mesi, conoscendo la violenza, il saccheggio ed il rapimento di bambini ed infermiere.

Infine, il 13 febbraio 1987, accusati dal governo di simpatizzare per i guerriglieri, tutti i sanitari furono obbligati ad abbandonare l’ospedale lasciando l’opera della vita. Dopo qualche settimana, stremato e vittima di gravi problemi renali, morì, solo, senza medici che potessero curarlo. Destino apparentemente ingrato: chi aveva curato e salvato migliaia di vite per oltre 30 anni moriva senza la minima assistenza. Definito il medico della carità, l’amico degli ultimi, il gran dottore bianco, il medico missionario, chi era in realtà?

Io ho incontrato padre Ambrosoli due volte: la prima passò da casa nostra a Varese, sapendoci in procinto di partire per l’Uganda, solo per salutarci e chiederci se avessimo bisogno di qualcosa. Fu un incontro di pochi minuti, ma stupì per la sua sensibilità e semplicità; poi a Kalongo nel 1985, quando si svolgeva l’incontro dei medici italiani del nord Uganda, per approfondimenti medici e convivenza amichevole. Fu molto attento a me e mia moglie, salutò con molta tenerezza il nostro Giacomo che allora aveva un anno. Mi colpì la sua determinata serenità. Poi la guerriglia impedì altri incontri.

Il cuore della sua testimonianza è questo: padre Giuseppe era un uomo che aveva incontrato Chi gli dava pienezza, Chi lo realizzava totalmente, dal punto di vista umano, affettivo, professionale, di senso e di serena pienezza. Senza aver bisogno di altro. Senza desiderare nulla di diverso. Un uomo sicuro di essere al posto giusto, in questo sperduto villaggio di capanne africane, conducendo una vita di lavoro, preghiera e povertà, senza rimpianti per le sue origini benestanti. Il posto giusto per lui. Ma il posto giusto non era l’ospedale di Kalongo, cui ha pur dedicato la vita, era Cristo nella carne dei suoi pazienti, dei suoi fratelli a cui si è consegnato senza trattenere nulla per sé, con abbandono totale.

Strana condizione di chi, pochi giorni dopo aver abbandonato forzatamente l’opera della sua vita, in apparente fallimento, scriveva: “Il Signore tuttavia è grande e ci ha dato la forza di accettare tutto dalla sua mano. Anzi è questa un’occasione meravigliosa per crescere e maturare spiritualmente e distaccarsi da tante cose terrene. Quindi ringraziamo di tutto il Signore, quello che vuole non è mai troppo. Per sua grazia l’ospedale di Kalongo, senza troppo rumore ha percorso un lungo cammino. Molti han trovato salute, molti sono tornati migliorati nelle loro capanne, alcuni sono morti nonostante le cure. Tutti vorremmo che avessero lasciato l’ospedale con il ricordo della nostra fraterna comprensione e simpatia e amore!”.

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