Dapprima l’Ecuador, poi a seguire il Perù, il Cile, la Bolivia: l’America Latina si sta riempiendo di violenza. Alla lista rischia di aggiungersi l’Argentina, dove domani si svolgeranno le elezioni presidenziali: già il “Frente de todos” kirchnerista ha allertato, attraverso un comunicato, i suoi scrutatori su “possibili frodi elettorali comandate dagli Usa” (e ci mancava…) aggiungendo che “qualora ciò accadesse la notte di domenica gli avvenimenti cileni saranno oscurati dalla violenza che esploderà inArgentina”.
Bel panorama, come si vede: ma quali sono le ragioni di un’esplosione di malcontento tanto grande nello stesso momento, quasi come se un ipotetico direttore di orchestra avesse dato il la per l’inizio del concerto? Oltretutto c’è da considerare un fatto importantissimo: non solo il liberale Piñera, Presidente del Cile, ha usato l’esercito. Dopo il precursore del suo uso, il dittatore venezuelano Maduro, pure l’altro populista Morales lo ha chiamato in sua difesa in Bolivia e lo stesso ecuadoriano Lenin Moreno ha minacciato di utilizzarlo. Tutti con la stessa idea: l’esercito deve difendere la Patria. Concetto molto usato dalle dittature militari degli anni Settanta: ma come mai questo fatto, sempre legato a dittature o regimi di estrema destra, si è impadronito anche dei populismi?
La spiegazione è molto semplice: l’uso delle forze armate copre il fallimento politico di chi le invoca in sua difesa, in linea generale. Allo stesso modo bisogna dire che, in America Latina, ma non solo (basti vedere quello che succede in Cina o nell’europeissima Francia), sia il neoliberalismo che il populismo hanno fallito la loro missione e sono responsabili entrambi di debacles che segnano il punto più alto (finora) della crisi che la globalizzazione ha imposto al mondo intero. Inoltre, con buona pace dei sostenitori dell’imperialismo americano come causa di chissà quali complotti planetari, scusa che il populismo ha sempre gridato per dare un senso al suo fallimento, bisogna considerare nel gioco la grandissima importanza che la Russia di Putin ma specialmente (in silenzio però) la Cina hanno in una influenza che, sia nel politico che nell’economico, ha ormai soppiantato gli Stati Uniti (specie la seconda) di un Presidente che ogni volta che apre bocca ne spara di grosse, ma il cui slogan “America first” pare appartenere ormai a un passato più nostalgico che altro.
Analizziamo per un attimo il caso del Cile, sul quale abbiamo già recentemente trattato nel Sussidiario: la scossa al “sistema” l’hanno data gli aumenti sui prezzi dei servizi di trasporto pubblico. Ma la reazione è iniziata ed è continuata solo attraverso l’azione violenta di gruppi sociali che la stolta perseveranza di Piñera con l’uso dell’esercito ha vieppiù aumentato. Da una parte si chiede l’immediato ritiro dell’esercito e dall’altra la fine delle violenze. È chiaro che si tratta di un gioco attualmente senza soluzione a breve termine, anche perché si teme che il ritiro delle forze armate estenda la violenza. Ma la domanda da farsi è pure un’altra: dalla fine della dittatura di Pinochet in Cile si sono succeduti 7 Presidenti di cui solo uno liberalista. Per il resto il potere è stato gestito dal centrosinistra che è stato protagonista di riforme che hanno portato sì il Paese a vivere un miracolo economico e a ridurre la povertà all’8%, ma hanno anche mantenuto salari e pensioni bassissimi e sopratutto colpito nel sociale (sanità e istruzione) le classi medie e basse. Ora, pur se Piñera (che è a rischio di dimissioni) ha cancellato le misure economiche prese e stabilito un tavolo di trattative, colpisce molto l’assenza proprio dell’opposizione al suo Governo nella questione, forse per paura di immischiarsi nel vortice di violenza finendo per identificarsi con i movimenti sociali che le ispirano.
Se invece in Ecuador la situazione sembra essersi stabilizzata, in Bolivia le proteste stanno estendendosi in tutto il Paese perché Morales si è autoproclamato vincitore prima ancora che lo scrutinio delle elezioni terminasse: lo stretto margine di vantaggio e il curioso tempismo del “Presidente eterno” hanno materializzato le accuse di brogli elettorali anche a causa di carenze nel sistema di conteggio del voto da parte della società venezuelana che lo gestisce (come d’altronde nella stessa Argentina).
I fallimenti quindi, lo ripetiamo, coinvolgono scelte politiche divergenti, ma sono la spiegazione della causa principale che le investono: il malessere sociale. Soluzione? Vista la grande crisi che attraversa il sistema democratico, l’unica soluzione rimane una terza via: quella della socialdemocrazia, dove vengano rispettate sia le libertà economiche quando però le stesse non distruggano quelle sociali. Il diritto alla qualità della vita non è minimamente discutibile, ma è chiaro che sia bloccare lo sviluppo di un Paese attraverso uno Stato Babbo Natale che alla fine lo distrugge, che operare tagli sociali fortissimi non giovano alla soluzione del problema. Il dialogo sociale è l’unica soluzione, all’interno ovviamente di una democrazia che si incarna in una Repubblica con uno Stato di diritto e dove la giustizia possa operare con l’indipendenza che merita.
Non è impossibile da realizzarsi perché più che un mero sogno questa visione è necessaria affinché il mondo non precipiti nell’autoritarismo puro di qualsiasi colore politico sia. Occorrono anche regole comuni da applicarsi all’economia mondiale affinché il lavoro torni ad avere dignità: anche l’Europa dell’austerità finora imposta come regola di un’economia balorda (se l’economia non ha il carburante dei soldi che uno può mettere nel circolo si blocca) deve prendere molto sul serio i segnali che arrivano dall’America Latina, perché non solo in Francia ma pure in Italia e altri Paesi il malcontento sociale sta iniziando ad assumere livelli preoccupanti.