“Engaña pichanga” è una tipica espressione Argentina che indica molto chiaramente un bluff: la si può tranquillamente usare per definire la riunione dell’organismo Celac (che raggruppa i Paesi latinoamericani) tenutasi lunedì e martedì scorso a Buenos Aires. Strombazzata ai quattro venti per la prospettiva di un accordo sulla nascita di una moneta comune tra Argentina e Brasile (peraltro smentita sul nascere dal ministro dell’Economia brasiliano Fernando Haddad), ma anche per i continui dissidi tra vari Paesi, le gaffes e determinate situazioni che hanno trasformato l’incontro in una assemblea di condominio.

Anzitutto dobbiamo segnalare che l’informazione da noi ricevuta sulla prevista rinuncia del Presidente venezuelano Nicolas Maduro a partecipare alla riunione per paura di un suo arresto si è rivelata più che fondata, visto che all’incontro non ha presenziato, ma non solo: ha “marcato visita ” per le stesse ragioni pure quello del Nicaragua, Daniel Ortega. Da rilevare che il Presidente argentino Alberto Fernandez si è dichiarato dispiaciuto per la mancata presenza del Presidente venezuelano… Hugo Chavez!

Riguardo poi la storia della moneta unica, che ha ottenuto un risalto mondiale, dobbiamo chiarire alcune cose: in primis, simili processi richiedono anni di preparazione (si pensi all’euro) e non sono attuabili con un colpo di bacchetta magica. A maggior ragione se ciò dovesse portare a un allargamento della questione all’intero Continente: ma a questo dobbiamo aggiungere (mettendo il dito sulla piaga del disastro del simposio) che vorremmo capire come sia possibile una manovra finanziaria tra Paesi le cui valute versano in condizioni che sono all’estremo opposto e sono economicamente differenti in modo colossale.

Perché, diciamocelo chiaro e tondo, il leitmotiv dell’intero simposio è stata la sua interpretazione a livello di utilità: in poche parole, come giustamente sottolineato dal Presidente uruguaiano Lacalle Pou nel suo intervento, certi organismi hanno la loro utilità solo se perseguono interessi di benessere comune e progetti di sviluppo altrettanto comuni, superiori al fattore ideologico e trasmissibili nel corso delle varie presidenze pure di origine politica differente ma nel pieno rispetto dell’ideale di democrazia e dei diritti umani. Se invece trionfa l’ideologia non si può arrivare a nessuna conclusione o solo a quella dell’inutilità di questi organismi, che alla fine riescono, se va bene, a partorire il nulla assoluto.

È chiaro che, come diceva giustamente mesi fa Papa Francesco “stiamo attraversando non un’epoca di cambiamenti, ma un cambio di epoca”, ma se è auspicabile che ciò avvenga bisogna che anche la Celac, come pure l’Ue o gli stessi Usa, inizino a pensare a politiche basate sul bene comune e non su bandiere ideologiche che, spesso nostalgiche dei terribili anni ’70, ripropongano conflitti anziché incontri di (spesso) estremismi di opposte fazioni. Perché, ed è proprio l’esperienza latinoamericana a dimostrarcelo, ciò porta inevitabilmente a condizioni di povertà estese e, se i processi sono organizzati da regimi dittatoriali eletti “democraticamente”, a una veloce sparizione della classe media.

Passare da un carro economico legato agli Usa a uno (i Brics) dove ci si attacca a quello di due Paesi non proprio esempi di democrazia come Russia e Cina, non è proprio il massimo. Creare alternative al dollaro è giusto, ma la stabilità o meno di una moneta dipende dal funzionamento delle varie economie che, in questo caso, la compongono e ciò è possibile solo attraverso politiche comuni di sviluppo sostenibile e senza “rivoluzioni” imposte con decisioni che nascondono spesso imposizioni economiche scellerate dettate dall’alto senza minimamente considerare la situazione sociale. L’esempio concreto risiede nell’attuale disfacimento dell’Ue, trasformata (e lo si è visto sulle problematiche energetiche) anche lei (come il Celca) in un’assemblea di condominio dove alla fine si fa a gara a chi ha più forza (per non usare un’altra espressione di origine sessuale).

Ritornando al mio caro Latinoamerica bastano espressioni come quella usata dal ministro dell’Economia argentino Sergio Massa, che nel corso del suo intervento ha definito l’Uruguay “un fratello minore del Mercosur che Brasile e Argentina hanno la responsabilità di proteggere”, frase che ha provocato reazioni durissime da parte dei rappresentanti di questa nazione. Tanto più che la protezione verrebbe da un rappresentante di un Paese con un’inflazione vicina al 100% rispetto a uno che, come il Cile fino a pochi anni fa, ha perseguito un dialogo democratico, con alternanza di poteri politici differenti, ma con politiche comuni che hanno permesso ai due Paesi di sconfiggere il nemico della povertà, arrivando a risultati notevoli anche a livello mondiale. Al contrario di altri che, come ripetiamo sempre, amano tanto i poveri da moltiplicarli, con politiche che hanno solo sconfitto libertà e democrazia e creato caste di “compañeros” che poi alla fine l’unica povertà che combattono è sempre la loro… e in quel caso riescono a sconfiggerla.

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