Caro Giorgio,

anch’io reagisco al tuo editoriale su Luigino, colpito da una coincidenza di visione che pure io ho rilevato in un mio pezzo su Italia Oggi giovedì scorso: con Amicone si discuteva, sempre. Litigai con lui, come ricorderai, arrivando a ritirare la firma sul settimanale Tempi per la questione degli Ogm, ma la nostra amicizia è rimasta integra negli anni, fino al messaggio su whatsapp un’ora prima che morisse, con il comune amico Fabio Cavallari e un bicchiere di vino alzato.



Ma perché sono possibili queste cose apparentemente contrarie: litigio e amicizia? Io penso che la radice sia la fede, almeno come ci è stata tramessa secondo il metodo di don Giussani. Siamo cresciuti giudicando tutto, da quando eravamo alle scuole superiori e scrivevamo i tatzebao, all’università, perché c’era stato trasmesso il principio che “E’ se opera” (titolo di un libro di don Giussani, ma anche, di fatto, la vita di Piccinini, di Amicone, di Tiscar, di Bertazzi, per citare gli ultimi amici che ci hanno lasciato).



Ora, questo aspetto di giudicare, che è diverso dal mormorio che ha invece una potenza distruttiva (lo diceva anche san Benedetto) credo sia urgente ed essenziale come l’aria, benché rischi di rimaner sopito giacché le cose importanti della vita poi diventano altre (la carriera, il proprio lavoro, la famiglia…).

Faccio un esempio. Nel 1986 stava nascendo la Compagnia delle Opere e talvolta ci si trovava con te in una ventina a Milano: qualcuno aveva già un’impresa, altri avrebbero iniziato a lavorare. Io facevo il servizio militare a Castello d’Annone e una sera, con la nebbia spessa raggiunsi via Copernico per la solita riunione. E quella volta tu iniziasti a leggere un giudizio sul problema della scuola e dell’educazione. “Che ne pensate?”. Ci fu il silenzio e in cuor mio pensai, forse come altri, ma cosa centra questo tema con quello che stiamo iniziando a fare? Al che tu dicesti: “Beh, se non abbiamo nulla da dire sull’educazione, possiamo chiudere anche qui tutto e subito”.



Questo episodio mi ricordò una mattina davanti all’Università Cattolica: ero matricola e con me c’erano altri due compagni; stavamo andando in mensa e alle spalle appoggiò su di noi un braccio don Giussani, che si mise a leggere un manifesto appeso all’ingresso, a firma Cattolici Popolari. Quando ebbe finito chiese: “Che ne pensate?”. E uno di noi disse: “Ah, son robe che hanno scritto i capi”. Al che il don Gius, palesemente contrariato, sbottò: “Come lo hanno scritto i capi?”.

“Quello che erediti dai tuoi padri riguadagnatelo per possederlo”, questa frase che segnò un’edizione del Meeting di alcuni anni fa mi sembra quanto mai attuale, allora, se penso a quante volte, invece, si liquida una faccenda che riguarda l’oggi, l’adesso, con un “sono mica affari miei”. Proprio come quella sera in via Copernico o quel mezzodì davanti alla Cattolica.

Ecco Luigino si può criticare su qualsiasi aspetto, ma non su questo, e la sua dipartita ha acceso una vampata “gioiosa” (voglio sottolineare), su quella baldanza nel giudicare tutto alla luce della fede che non gli è mai venuta meno.

Mi ha poi colpito nei vari commentatori, quell’accento sulla libertà associata alla figura di Amicone. Ed ho pensato che Luigino fosse libero non perché manifestava ciò che gli passava per la mente, ma perché non sentiva addosso la prigione di chi deve dire prima di tutto la cosa giusta, secondo quanto potrebbe attendere l’interlocutore. Il giudizio, che nasce dalla verità di un’esperienza, non è la parola giusta, democratica, misurata. Non è quella cosa lì, che piuttosto rappresenta un tipo di rapporto più politico che libero. E’ invece ciò che avverti come vero, soggetto ad una delle esperienze più edificanti di un’amicizia che è la correzione fraterna. Ed è questo che fa la differenza, appunto, perché vissuto all’interno di un cammino di fede e non della dittatura di quel che penso io.

Per questo, pensando a Luigino, a Piccinini e ad altri, senti la carezza di Dio, che ha modellato con la sua misteriosa presenza nel mondo, personalità adulte, responsabili fino in fondo di un orizzonte ampio che non fosse il proprio particolare.

Certo, talvolta la parola poteva trascendere nel mormorio, soprattutto quando si parlava di questioni cosiddette interne, ma c’era un trucco per non cedere alla tentazione di attardarsi su faccende inutili: abbozzare e andare al dunque. Siamo insieme per ben altro.

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